La politica salariale del sindacato

di Sandro Antoniazzi

Ho conosciuto e stimato nel tempo diversi Segretari Generali della CGIL, persone come Luciano Lama, Antonio Pizzinato (un caro amico) Bruno Trentin e Sergio Cofferati. Poi però le cose sono cambiate. Si è determinata una crisi politica e sociale con la scomparsa dei vecchi partiti di massa e, in mezzo a questa confusione,  la CGIL ha pensato di assumere un ruolo particolare. Poiché il partito di centro-sinistra non sembrava  rappresentare sufficientemente la sinistra, la CGIL si è proposta come il contenitore generale della sinistra: sindacato di sinistra, popolo di sinistra e così via.

Successivamente Landini ha proposto, nello stesso ordine concettuale, l’idea di coalizione sociale, che avrebbe dovuto coinvolgere le organizzazioni più diverse. Se in un mondo confuso si propongono idee confuse è difficile che esca qualcosa di buono.

C’è un solo modo semplice e chiaro perché il sindacato possa contare politicamente: fare bene il sindacato. Ecco perché il compito attuale delle confederazioni è di saper scegliere pochi temi decisivi, approfondirli e renderli delle proposte solide e concrete. Pier Carniti nelle sue battaglie spesso sceglieva un tema solo e lo faceva diventare una questione centrale: dunque pochi punti qualificati su cui stringere un forte patto unitario. Certamente queste scelte non devono riguardare solo il governo ma non meno gli imprenditori sinora lasciati troppo indisturbati.

La battuta della Meloni, secondo cui si chiede al governo il salario minimo di 9 euro mentre esistono contratti che prevedono paghe da 5 euro, è da una parte certamente superficiale perché si riferisce a categorie piccole e deboli, dall’altra contiene una parte di verità.

Occorre realizzare una trattativa con la Confindustria per sistemare la posizione di queste categorie, magari collegandole a categorie di maggior peso. Ma esiste un altro problema fondamentale da affrontare: dopo l’abolizione della scala mobile il sindacato non ha più strumenti efficaci per contrastare l’inflazione. In altri Paesi (ad esempio Germania) nei contratti di lavoro si distingue la parte normativa da quella salariale: quest’ultima viene discussa anche annualmente.

Perché non pensare ad una soluzione simile anche in Italia? I contratti potrebbero durare 4 anni per la parte normativa  mentre l’adeguamento salariale potrebbe realizzarsi ogni 2 anni in modo da poter meglio affrontare il processo inflazionistico.

Sandro Antoniazzi