Ti ho messo davanti la vita e la morte (De 30,19)

di Sandro Antoniazzi

Una riflessione sulla morte.

Introduzione.

Per chi ha un’età avanzata ed è giunto all’ultima parte della sua vita, pensare alla conclusione della propria esistenza è tanto naturale quanto necessario.

Tante personalità passate ritenevano che il momento della morte fosse un momento straordinario, un’occasione da non perdere, un evento unico che meritava di essere vissuto nel modo migliore possibile.

In una visione diversa, ma coincidente nel fine, presso le comunità cristiane era vivo nei tempi passati il problema del prepararsi alla morte; santi e padri della chiesa hanno scritto celebri esortazioni a riguardo: De bono mortis di Sant’Ambrogio, L’arte del buon morire del Bellarmino, L’apparecchio della morte di sant’Alfonso de’ Liguori, per citare i più noti.

È condivisione unanime – e come potrebbe essere altrimenti? – che la morte sia un fatto naturale universale; se non è certa la data, certa è la morte.

Si può cercare di eluderla, di non pensarci, di fare come se non ci fosse, ma sono atteggiamenti utili al massimo per dilazionare il momento della presa di coscienza.

Già Pascal, ai suoi tempi, diceva “Gli uomini non potendo guarire la morte e sperando di essere più felici, hanno deciso di non pensarci”.

È ciò che oggi avviene su larga scala: è l’intera società che fa di tutto per nasconderla.

Ma la morte è un problema: è la totale dissoluzione di una persona, coi suoi affetti, i suoi rapporti, la sua storia; è uno strappo, una rottura, senza rimedio (la psicoanalisi ritiene che il lutto serva a trasferire la pulsione affettiva su un altro soggetto, ma chi ha perso una persona cara difficilmente ha in mente questo); si affronta spesso con paura, con angoscia perché si ha davanti l’ignoto, il vuoto, il nulla.

Alcuni pensatori laici si sono misurati col problema: negando la prospettiva dell’aldilà ritengono che ciò a cui l’uomo deve tendere sia una pienezza di vita nell’aldiquà, una vita fatta di dignità e di espressione delle migliori qualità di ognuno.

Tanto più che la consapevolezza che si deve morire (l’uomo è essere-per-la-morte, dice Heidegger) dovrebbe spingere a utilizzare al meglio ogni ora della propria vita.

L’uomo cosciente è portato ad accettare razionalmente la morte, però appare talvolta un desiderio di immortalità; lo stesso Freud affermava che nell’inconscio ogni uomo è convinto della propria immortalità e un pensatore come Edgar Morin sostiene che l’aspirazione all’immortalità è una prova vera e propria dell’immortalità stessa.

Poeticamente, l’immagine dell’immortalità appare in una splendida poesia di Leopardi “Cara beltà che amore lunge m’ispiri o nascondendo il viso fuor se nel sonno ombra diva mi scuoti…”

Vi è dunque una corrente laica “ottimistica” che, magari non sostenendo esplicitamente l’immortalità, lascia aperto uno spiraglio; non sappiamo nulla dell’aldilà, è lecito pertanto il dubbio.

Non sembra comunque condivisa l’idea di Platone che, poiché la vita è piena di problemi e di conflitti, la morte è preferibile in quanto l’immortalità presenta una vita migliore.

Sono però probabilmente di più i pessimisti, senza giungere agli estremi espressi da una famosa frase del satiro dionisiaco Sileno: “Meglio per te non essere nato; in secondo luogo, meglio per te morire presto”.

Nell’età moderna una posizione simile la riscontriamo in Schopenauer “la vicenda umana è dovuta all’immotivata volontà di vivere con l’unico scopo del suo prolungamento”.

Vi è poi un gruppo particolare di laici che, pur privi di fede religiosa, studiano il cristianesimo, spesso con un’elevata preparazione: proprio il fatto di esprimere un punto di vista diverso, rende spesso interessanti i loro contributi filosofici-teologici.

In conclusione, il meglio che esprime il pensiero laico sembra racchiuso in due questioni positive: l’idea della pienezza di vita e una qualche apertura alla prospettiva dell’immortalità.

Certamente molto più ricca è la riflessione religiosa; ci riferiamo a quella cristiana, perché le altre richiederebbero competenze troppo specifiche.

In campo cattolico il tema della morte e di ciò che avviene dopo è stato un campo di studi a lungo trascurato: per secoli ha dominato l’idea minacciosa del peccato, il pericolo della pena dell’inferno, la necessità della penitenza e quindi del ricorso ai sacramenti, sotto l’autorità della chiesa.

Sulla spinta di un’evoluzione del pensiero protestante, anche la riflessione cattolica ha ripreso a produrre nuove concezioni, oggi materia di discussione.

La morte.

Il primo problema da affrontare è la morte stessa: esperienza generalmente descritta come perdita, lacerazione, smarrimento, angoscia.

La morte non è solo la distruzione dell’uomo biologico, è un fatto che coinvolge l’intero essere umano, chi muore è una persona, che porta con sé tutta la sua esperienza, quello che è stato nel corso della sua vita.

In questo la morte rappresenta l’espressione più propria e più esaustiva della fragilità umana.

Di questa fragilità, dunque della morte, sono segno tanti momenti della nostra vita: malattie, fallimenti, incidenti, depressioni, dolori. La morte non è solo un momento finale: tutta la nostra vita è segnata e orientata dalla sua fine.

La morte è per molti versi un mistero, si presenta oscura, viene definita “velata”, nel senso che nasconde esiti potenzialmente diversi, tanto l’annientamento quanto il compimento.

Però la fine della vita è anche un momento che possiamo considerare di pienezza della vita, perché la conclusione è anche una ricapitolazione: si conclude una storia personale di libertà.

La morte è così un’occasione ultima dove si esprime la nostra decisone definitiva, che non è espressione solo dell’ultimo momento, ma è manifestazione dell’intera vita, di cui la morte è solo il momento conclusivo.

La decisone riguarda il nostro destino futuro, cioè l’accettazione della morte come passaggio che avviene nella speranza dell’incontro con Dio.

E lasceremmo questa vita con profonda tristezza, se non credessimo nella possibilità di rivedere coloro che amiamo.

Il peccato.

Nella visione tradizionale del rapporto morte – peccato, quest’ultimo è considerato come causa della morte.

Il pensiero attuale però ritiene che anche i nostri progenitori Adamo ed Eva fossero destinati a morire, ritenendo impensabile una vita umana senza limite; si trattava di una morte diversa, che non conosciamo, in una forma non traumatica, senza rotture e separazione.

Dunque, la situazione in cui ci troviamo, dovuta al peccato di Adamo, non è causa della morte, quanto piuttosto del modo con cui si manifesta, nella sofferenza e nell’oscurità.

Nella visione tradizionale è molto rimarcato il peso del peccato, mentre si tiene troppo poco conto della grazia del Signore; il sacrifico di Cristo ci ha fatti uscire da una condizione senza grazia per inserirci in una condizione che, attraverso il battesimo, cancella il peccato originale.

La Bibbia inoltre afferma che non è stato Dio a volere la morte, ma Satana; quindi, per l’uomo, si tratta di una condizione in cui è venuto a trovarsi.

Il peccato originale dell’uomo è stato un peccato di autosufficienza, la pretesa di fare da sé senza Dio; la croce di Gesù rappresenta esattamente l’opposto, in quanto apertura alla comunione con Dio e con tutti gli uomini.

E non dimentichiamo che la buona novella è destinata ai peccatori, ai malati, non ai sani.

L’azione di Gesù è stata un’azione misericordiosa, piena di perdono, ben espressa dalla parabola de “Il figliuol prodigo”, che mostra qual è l’atteggiamento del Signore nei nostri confronti.

C’è un solo peccato che non può essere perdonato, quello “per la morte”, cioè una libera opzione fondamentale contro Dio.

La morte cristiana.

La riflessione cristiana sulla morte ha come fonte la croce di Cristo, la sua morte e la sua resurrezione.

Cristo è veramente morto (disceso agli inferi, dice il Credo; disceso all’inferno dice il Simbolo apostolico) ed è veramente risorto, liberando così gli uomini dalla condizione in cui erano caduti e vincendo la morte.

Questo è avvenuto per la nostra salvezza; è ciò che leggiamo nel vangelo “non sono venuto per giudicare, ma per salvare”.

Cristo ha assunto la nostra umanità perché noi potessimo partecipare della sua divinità. Nel triduo pasquale gli ortodossi cantano “Oggi Cristo è sceso sulla terra e l’uomo è salito in cielo”.

Dunque, la morte ha come modello la Pasqua di Cristo e – a somiglianza del battesimo – significa il passaggio da una vita vecchia ad un’altra nuova e migliore.

Questa nuova vita è presente tra noi, perché il Regno di Dio è già iniziato, perché Gesù è presente nell’Eucarestia, perché il soprannaturale è una realtà attuale; dunque noi viviamo già nella grazia del Signore.

Come la nostra vita è vivere con Cristo, così la nostra morte è un con-morire fiduciosi in Cristo.

E poiché la vita di Cristo è stata uno spendersi per gli altri, così la vita del cristiano si esprime allo stesso modo, nell’amore per gli altri: la morte rappresenta una dedizione ultima, che ci apre senza soluzione di continuità alla nuova vita: “Se siamo morti con Cristo, crediamo anche che vivremo con lui” (Rom. 6,8).

Dunque, non dobbiamo aver paura della morte, ma vivere nella fede delle promesse ricevute e nella speranza di una vita nuova in Dio, convinti, come dice il Salmo 63, che “La vicinanza di Dio vale più della vita”.

E poi il cristiano non muore solo. Certo difficilmente oggi si assiste alle immagini di una volta dell’anziano che moriva serenamente circondato dai figli e dai nipoti, quasi come a un evento comune.

Baget Bozzo ricordava di aver visto a Matera un sacerdote che portava l’estrema unzione ad un ammalato seguito da decine di persone, a significare vicinanza e partecipazione al morente.

Oggi non solo sono sparite queste usanze sociali, ma tante persone muoiono in ospedale, in genere sole oppure con la compagnia di un infermiere, sedate o semi-incoscienti; è una morte nel nascondimento, spesso giustificata dallo stato di salute, ma anche dovuta a un venir meno di responsabilità: si pensa che sul piano pratico sia conveniente comportarsi così, senza nessuna considerazione dell’importanza della morte di una persona.

Ma al di là dell’aspetto sociale rimane una verità più profonda e assoluta: il cristiano è membro di una chiesa, è parte di una comunione spirituale di vivi e di morti (fra cui gli amici che ci hanno preceduto), comunità che è presente accanto a lui nel momento della morte.

L’ immortalità.

La dottrina cristiana, confermata sia dalla Bibbia che dalla tradizione, parla della resurrezione della carne.

A questa concezione si è sovrapposta quella dell’immortalità, di origine ellenica, citata una sola volta dalla Bibbia nel libro della Sapienza, che ha la sua origine ad Alessandria dove era presente un’influenza greca.

Questa dottrina è stata accolta anche da San Tommaso e ha trovato di fatto un largo seguito in campo cattolico, perché si prestava bene a inquadrare i problemi relativi all’aldilà.

Così si pensava che in una prima fase sopravvivesse l’anima (immortale), mentre solo alla venuta finale di Cristo sarebbe risuscitato anche il corpo; nell’intervallo tra questi due momenti si collocava il purgatorio per consentire l’espiazione delle anime impure.

È stato talmente rilevante il peso di questa dottrina che ancora oggi è il pensiero più diffuso tra i fedeli cattolici.

Ma sull’immortalità si è verificata una vera e propria inversione di rotta del pensiero teologico, volta a rimettere al centro la resurrezione; la morte riguarda sia il corpo che l’anima, cioè la persona nella sua integrità, e altrettanto vale per la resurrezione.

L’anima è strutturalmente unita al corpo, il quale rappresenta una dimensione fondamentale della persona, il suo legame col mondo, con la terra.

Ratzinger sostiene che l’anima (ma un’anima che non perde il suo legame corporeo) costituisce la parte della persona che può relazionarsi con Dio, esserne l’interlocutore; l’anima avrebbe pertanto nell’aldilà questa funzione relazionale.

Esplicita è la critica dell’immortalità che secondo alcuni vuol dire non prendere sul serio la morte (perché si pensa che l’anima non muoia e rimanga sempre viva) e non prendere sul serio nemmeno il suo superamento (perché di fatto si salva solo l’anima).

Ma l’uomo non è immortale, perché solo Dio è eterno: l’uomo partecipa dell’immortalità/eternità solo attraverso il rapporto con Dio. Un rapporto che si realizza già oggi nella nostra vita attuale e che continua, senza soluzione di continuità, nell’altra.

La resurrezione.

In questo campo sono avvenute le maggiori proposte di novità, che hanno profondamente modificato la dottrina una volta chiamata dei “Novissimi” (le cose nuove dopo la morte) e ora più propriamente definita “escatologia”, cioè dottrina delle cose ultime:

Se è tutto l’uomo a morire, allora si aprono vari interrogativi su quando e come avviene la resurrezione, problemi che nella visione tradizionale erano superati dalla distinzione in due momenti: uno immediato individuale e uno finale che riguardava tutti.

L’anima individuale rimaneva in uno stato intermedio in attesa della resurrezione universale; in questa visione si teneva poco conto del corpo, che appariva solo alla fine.

Ma come può avvenire la resurrezione dopo la morte della persona fatta di anima e corpo? Attorno a questo problema sono sorte delle ipotesi nuove.

Senza dubbio uno stimolo è venuto dal pensiero protestante, perché anch’esso si è orientato alla resurrezione della carne.

Una soluzione radicale proposta in quest’area è quella della GANZTOD (morte totale), per cui muoiono integralmente sia il corpo che l’anima: solo l’intervento di Dio può ridare loro la vita, di fatto con un nuovo intervento creativo.

A partire da questa concezione si è sviluppato il pensiero di Ladislaus Boros, teologo cattolico ungherese, il quale sostiene la tesi della “resurrezione nella morte”; la resurrezione avverrebbe immediatamente dopo la morte per poi attendere quella di tutte le altre persone al fine di ritrovarsi nella conclusione finale.

Per quanto riguarda il problema del corpo si afferma che esso potrebbe assumere una forma diversa oppure collegarsi all’anima in modo nuovo; si parla anche di un corpo pan-cosmico, un corpo in una situazione del tutto differente.

Una soluzione, per certi versi analoga, sostiene che dopo la morte avviene un incontro immediato con Dio, ma rimane confermata la resurrezione finale, anche se più sfumata.

Nell’attesa della resurrezione finale si pensa che i morti si trovino in un “tempo figurato”, diverso dal tempo fisico; per alcuni l’attesa riguarderebbe il fatto che anche il mondo parteciperà alla resurrezione, per altri il mondo è già compreso nella resurrezione (perché è interiorizzato nell’esperienza personale), ma occorre attendere che sia completato questo apporto di tutti.

Altri ancora pensano che dopo la morte ci sia una situazione di “atemporalità”, però il periodo di attesa può essere anche visto come un processo dinamico, ad esempio come un periodo di purificazione, che si conclude con la resurrezione finale (Sant’Ambrogio parlava di sonno).

Anche la visione di Ratzinger di un’anima relazionale o dialogica prevede un tempo intermedio che, riprendendo un pensiero di Sant’ Agostino, viene chiamato “tempo spirituale”, di fatto molto simile al tempo figurato.

Il tempo intermedio non è più comunque quello del passato, perché viene molto accentuato l’incontro immediato individuale con Dio.

Si è verificato un profondo cambiamento antropologico che ha portato a ridare importanza alla persona rispetto all’anima e nella resurrezione a privilegiare il rapporto personale uomo-Dio rispetto al momento finale collettivo.

In ogni caso è da tutti superata l’idea di inferno – purgatorio – paradiso come dei “luoghi”; inferno e paradiso devono essere visti in rapporto a Dio: come rifiuto esplicito da parte dell’uomo di questa relazione in un caso e come decisione per Dio e abbandono al suo incontro nell’altro.

Così non si parla più di purgatorio, ma di purificazione, perché la persona per presentarsi a Dio ha bisogno di mondarsi di tante impurità della sua storia personale, ma non rappresenta un altro stadio, quanto piuttosto un dinamismo del tempo intermedio.

Il giudizio.

La paura della morte se è dovuta al senso di perdita immediata di sé stessi è forse ancor più dovuta al pensiero di quello che ci attende dopo.

Ciò che dobbiamo temere è la “seconda morte”, di cu parla l’Apocalisse (21,8), cioè un giudizio di condanna che ci escluderebbe per sempre dal rapporto con Dio.

Certamente ci sarà il giudizio, sul quale tutti convengono che sarà uno solo.

I più propendono per un giudizio personale subito dopo la morte, ma è anche possibile che avvenga alla fine, nella resurrezione universale: la Bibbia a riguardo lascia aperte entrambe le prospettive.

Se la lettera agli Ebrei prospetta la prima soluzione “è stabilito che tutti gli uomini muoiano una volta sola, dopo di che viene il giudizio” (Eb. 9,27), il vangelo di Matteo in una pagina molto popolare parla del giudizio universale dove il Figlio dell’uomo separerà gli uni dagli altri e “porrà le pecore alla sua destra e i capri alla sua sinistra”, i giusti e i dannati (Mt. 25, 31-43).

Il giudizio è un momento di verità: l’uomo acquista una visione pienamente lucida di sé stesso e vede con chiarezza i propri errori e i propri limiti.

Per questo il giudizio risulta di fatto un auto-giudizio, cioè coscienza della propria finitudine, della propria mancanza.

Il giudizio da parte di Dio non va visto come una condanna, una pena, ma come una purificazione; la pena consiste sostanzialmente nel dolore che si prova per i propri errori.

L’inferno non è un luogo fisico, ma la separazione dell’uomo da Dio; anche in questo caso si tratta di auto-esclusione, perché è l’uomo nella sua libertà che decide di fare a meno di Dio, di essere contro Dio.

Non è ciò che Dio vuole: “Io non godo della morte dell’empio, ma che l’empio desista dalla su condotta e viva” (Ez. 33,11); ciò che Dio vuole è “che tutti gli uomini siano salvati” (1Tm. 2,4).

Il giudice finale sarà Gesù e il criterio del giudizio sarà la sua prassi e la sua predicazione; quel Gesù che attraversava la Palestina benedicendo e risanando: non sono venuto per i sani, ma per i malati, non sono venuto a giudicare, ma a salvare: sull’amore, dunque, saremo giudicati.

Il giudizio è purificazione, finalizzata a una pienezza di vita, che riguarda una vita che è ancora incompleta, limitata.

È la presenza di questa fase di purificazione che consente e giustifica il rapporto tra i vivi e i defunti; il defunto non è in uno stato passivo. Dobbiamo pensare la purificazione come un momento attivo per poter liberarsi dalle proprie scorie. In questo è valida la preghiera per i defunti ed è possibile una comunicazione tra i due mondi: i defunti hanno bisogno delle nostre preghiere che consentono loro di avvicinarsi di più a Dio. Ed anche loro possono intercedere per noi, quanto più sono avanti nella purificazione (i santi sono coloro che già in questa vita si sono molto purificati e quindi possono aiutarci maggiormente, ma anche i nostri familiari e i nostri amici possono contribuire). I vivi e i morti formano un’unico corpo, una comunità, una chiesa, in cui ci si aiuta l’un l’altro.

Rimane l’ipotesi più negativa, l’esclusione del rapporto con Dio, perché l’uomo è libero e può autoescludersi.

Però, secondo alcuni, ad esempio il filosofo Payerson, se permanesse l’inferno allora vorrebbe dire che persisterebbe per sempre anche il male: ma possono coesistere il male e il bene all’infinito? Oppure il male è destinato a scomparire?

È l’ipotesi dell’apocatastasi, cioè che tutti un giorno potrebbero essere salvati, anche i peccatori, anche chi ha rifiutato Dio.

Questa idea sostenuta da Origene nei primi secoli del cristianesimo è stata poi condannata dalla chiesa, anche perché si rischia di non prendere sul serio la propria responsabilità: alla fin fine tutti comunque si salverebbero.

La vita assomiglierebbe a quei film dove si sente ripetere l’incoraggiamento spesso illusorio: “andrà tutto bene”.

Se la possibilità della salvezza per tutti non può costituire una certezza, può però essere vissuta come una speranza: è la posizione di un grande teologo, Von Balthasar, ”La speranza per tutti è un speranza non priva di timore”.

Era anche la convinzione profonda di Charles Peguy: “Dobbiamo salvarci tutti insieme! Non possiamo andare a Lui gli uni senza gli altri. Che cosa penserebbe di noi, se giungessimo a Lui senza gli altri, se ritornassimo senza gli altri.”

È in fondo il messaggio della parabola della pecorella smarrita e del pastore che abbandona il gregge per cercarla, affinché neppure una vada perduta.

Possiamo in ogni caso accettare con fiducia il passaggio della morte; essa è, come la Pasqua, passaggio dalla morte alla vita, passaggio da una vita più limitata a una vita più piena: “morire è un guadagno” (Fil. 1,21) perché entriamo in una vita migliore.

Sulla terra siamo come in esilio, siamo pellegrini, ci attende un’abitazione definitiva, la nostra dimora è presso Dio.

In questa nuova vita si realizzerà la fraternità con tutti i fratelli e saremo una cosa sola con loro e con Dio, ciò che può realizzarsi solo nell’eternità.

Coma dice San Paolo “la carità (l’amore) non avrà mai fine” e questo mondo futuro di amore è il destino che ci attende.

Il compimento.

In passato si riponeva la fede nell’aldilà come supremo scopo della vita, spesso a scapito dell’impegno nell’aldiquà (ciò che veniva rimproverato ai cristiani), ma la speranza nell’aldilà, poiché è speranza nell’amore di Dio, dovrebbe invece spingere a viverlo non meno nella vita attuale.

Del resto, Gesù nella sua missione ha parlato del Regno di Dio che è già presente in mezzo a noi e l’altra vita, dopo la morte, si presenta come una continuità di questa.

La morte infatti è il compimento di un cammino di personalizzazione che è giunto alla sua fase ultima e decisiva.

L’uomo che muore porta con sé l’intera sua storia, la coscientizzazione della sua esperienza, il contributo di bene di cui è stato capace in vita.

Si prepara così nella sua libertà all’incontro con Dio, incontro di due libertà ben diverse, di grandezze incomparabili, ma è questo l’uomo che si presenta perché l’uomo è fondamentalmente la sua libertà. E il Signore è pronto all’

incontro con l’uomo “Su venite, discutiamo” (Is. 1,18)

È un incontro faccia a faccia ed è giusto avere “timore di Dio”, che non è paura, ma coscienza della propria insignificanza e miseria di fronte alla grandezza di Dio.

Si discute se anche la natura possa entrare in questo compimento, dato il suo carattere di materia, ma poiché la creazione è fatta da Dio è da ritenere che Dio non la dimentichi.

D’altronde, i salmi non parlano tante volte della natura che loda il Signore? E Isaia non profetizza “Giubilate, o cieli, e rallegrati terra, tripudiate di gioia o monti perché il Signore consola il suo popolo” (Is. 49, 13)

La fine del mondo fisico e la Resurrezione finale (la Parusia) sono due cose diverse; la fine del mondo in senso cristiano non è il collasso del sistema planetario, ma l’annientamento del male (la morte, il peccato, il dolore, la separazione da Dio).

La resurrezione del singolo rimane imperfetta anche per un altro motivo più importante: essa si completa solo con la resurrezione di tutti, che insieme costituiscono la “comunione dei santi”.

Come dice il vangelo di Giovanni “perché tutti siano una cosa sola, come tu Padre sei in me ed io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola” (Gv. 17, 21).

Cacciari mette addirittura in dubbio che la resurrezione stessa possa avvenire, qualora questa unità non si realizzasse.

Questa fine potrà essere un compimento, cioè una realtà in parte comprensiva dell’esperienza passata, dunque un’intensificazione, una trasformazione, un perfezionamento; oppure potrà essere qualcosa di totalmente nuovo “nuovi cieli e nuova terra”.

In ogni caso la fine richiede certamente un atto proprio e definitivo di Dio che, come ha realizzato la creazione, così ne opera la conclusione: atto risolutivo perché Lui solo può salvare gli uomini e può mettere fine al male e alla morte (“Egli eliminerà la morte per sempre”. Is. 25,7-8).

In questo sta il significato della Parusia e della Resurrezione universale come trionfo finale di Dio sulle potenze del male, presenti nell’uomo e nell’universo, con cui si chiude la storia per aprire una nuova era.

Non dobbiamo infatti dimenticare che, in una forma a noi invisibile, è presente uno scontro cosmico con le forze spirituali del male “La nostra battaglia, infatti, non è contro creature fatte di sangue e di carne, ma contro i principati e le potestà e contro i dominatori di questo mondo di tenebra e contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti” (Ef. 6,12-13)

BIBLIOGRAFIA.

Lo scritto è frutto di diverse letture. Ho evitato le citazioni nello scritto, perché l’avrebbero reso pesante e illeggibile. Segnalo le pubblicazioni più importanti consultate.

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