L’Isola, un borgo in città

di Pier Vito Antoniazzi

Mi sono innamorato dell’isola perché ho avuto la sensazione di vivere in un borgo. In 100 metri c’era la farmacia, il tabaccaio, la chiesa, il panettiere,  l’edicola, l’ortolano… tutto quello che fa un paese. Come una contrada di Siena, come un quartiere di Parigi. Un sapore di vita in strada. Diceva Cesare Pavese (“La luna e i falò”) “Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nelle terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti.”

E questo senso “di paese” io l’ho trovato tra le vie e le case dell’Isola. Case di inizio 900 con metrature piccole. La casa dell’operaio era 50 metri quadri. Quella del ceto medio 70/80. Negozi piccoli, botteghe singole, una volta di artigiani. Magari qualche magazzino nell’interno cortili.

Chi ha più vetrine è perché negli anni ha acquisito quella vicina… Strade abbastanza strette. Ecco, quello che era un handicap oggi è un punto di forza. Tutti vogliono le vie a 30 km/ora ma all’isola è cosi naturalmente. Non c’è bisogno di grandi interventi strutturali. E questa conformazione urbanistica, questo genius loci, ha prodotto una lentezza nella gentrificazione, una gentrification soft. Perché poi ci sono molte case demaniali e questo vuol dire case in affitto. C’è dunque un mix sociale, un mix generazionale.

Le case piccole sono ideali per i giovani: single, coppie, coppie con figli.

Tutto questo prima e a fianco di uno dei più grandi interventi urbanistici e immobiliari che hanno creato la nuova realtà di Porta Nuova.

Mi è capitato di vivere questa trasformazione come protagonista, da un punto di osservazione privilegiato.

Nel 2006, quasi per caso e per gioco (ero già stato assessore per i verdi in comune nell’87/90 e avevo staccato con la politica da 10 anni…) vengo eletto nel consiglio di Zona 9, l’unico in quella occasione a essere vinto dalla sinistra, in una città completamente in mano al centrodestra di Letizia Moratti.

La mia lista (Ferrante) prende il 7,5% ed è la seconda forza dopo l’ulivo. Mi toccherebbe dunque la vicepresidenza, ma è stata promessa a Rifondazione. Non c’è problema, dico, prendo la Commissione Urbanistica.

Sull’Urbanistica noi esprimevamo pareri consultivi, che potevano bellamente essere ignorati, però almeno la materia passava di lì.

Il PII Isola era stato avviato alla fine della legislatura di Albertini con l’astensione o il voto a favore dell’ulivo grazie ad una mediazione: veniva affidata la revisione a Stefano Boeri. Il ruolo di Boeri è stato molto significativo nella vicenda, non per il Bosco Verticale, ma perché Boeri convinse Catella (il general manager dell’operazione) che costruendo un pezzo di città nel centro della città occorreva confrontarsi con il territorio, raccoglierne le esigenze, dialogare.

Ricordo Catella metterci la faccia venendo nelle assemblee in parrocchia a prendersi “i pomodori in faccia”.

Certo Boeri sperava di coordinare tutto il progetto e scegliere lui gli altri architetti, ma questo non gli fu lasciato fare.

Sul fronte politico io mi trovavo con una sinistra che era stata sempre contro ogni progetto, che aveva fatto campagna elettorale contro, che aveva comitati che facevano ricorsi al tar e poi al consiglio di stato.

Cercai di convincere la mia maggioranza che occorreva entrare nel merito delle scelte sull’abitare che non dovevamo solo fare opposizione sulle volumetrie.

Indicammo come cdz per gli spazi pubblici che discendevano dagli oneri una eccellenza del non profit (che poi fu la “casa della memoria”, iniziativa dalle potenzialità non ancora espresse).

Favorimmo una mediazione tra “la stecca degli artigiani” e l’intervento. Non aut aut (o stecca o case) ma et et (e stecca nuova e case).

Ci battemmo perché gli spazi verdi (privati ad uso pubblico) fossero aperti e non recintati (e da poco erano passati gli anni in cui De Corato si era vantato di aver chiuso il Parco delle Basiliche a piazza Vetra sostenendo che i parchi di notte erano lo snodo dello spaccio).

L’attenzione allo spazio pubblico (verde, pedonalizzazione, ciclabilità, sicurezza,…) è gran parte del successo di Porta Nuova. E si deve ad una dinamica di confronto che ancora è stata poco narrata e che potrebbe essere istruttiva per il futuro.

La tradizionale autonomia, spirito di ribellione e associativo dell’Isola ha prodotto conflitti anche aspri ma è servito. Ed è servito anche perché ci sono state figure di mediazione (come noi al cdz, come ADA la stecca) che hanno trasformato il conflitto in proposte e in risultati.

Ma anche si è affermato un nuovo modo di essere del “privato”. Questo privato non si è preoccupato solo di costruire belle case con un po di verde intorno. Ha capito che se il quartiere era vivibile e lo spazio pubblico bello e curato ne guadagnava anche l’attrattività ed il valore del patrimonio. Si è realizzato dunque un nuovo modello di collaborazione tra il pubblico e privato.

La vivibilità ha un costo. La sicurezza ha un costo. A Porta Nuova ci sono telecamere e polizie private di notte, ma il costo va sui privati e i benefici su tutti. Quelli che ironizzano sui costi condominiali del bosco verticale dovrebbero invece ringraziare quelli che curando un edificio divenuto fonte di attrazione mondiale, curano anche la qualità del quartiere.

Tutte rose? No certo. L’attrattività dell’Isola porta l’invasione di multinazionali e di soggetti sconosciuti (forse non tutti limpidi). L’esplosione del food e il conseguente inizio di movida porta ad un rischio “naviglizzazione”.

Lavoro con i commercianti di vicinato a mantenere un tessuto artigiano e di microimpresa, l’unico anticorpo che può reggere. Ma intanto mi godo l’isola, un borgo in città dove si può vivere ancora in strada.

di Pier Vito Antoniazzi