Chi può fermare Israele?

di Sandro Antoniazzi

La risposta è semplice e nello stesso tempo deludente: nessuno.
L’unico Stato potenzialmente in grado di farlo sono gli Stati Uniti, ma non interverranno.
Il motivo immediato sono le elezioni, per cui anche la più piccola mossa sbagliata può determinare uno svantaggio.
Ma al di là delle elezioni, l’atteggiamento degli Stati Uniti sarà frenato anche domani dal legame che li unisce a Israele: Israele ha bisogno degli Stati Uniti per reggere, ma gli Stati Uniti non possono non sostenere Israele a causa della potente lobby sionista presente nel paese.
Gli studenti americani possono essere pro-Palestina, ma l’establishment è filoisraeliano.
Così Israele procede nella sua azione distruttiva di smantellamento di Hamas e di Hezbollah.
Ci sono certamente delle motivazioni fondate in questa azione, che vanno al di là della reazione al massacro del 7 ottobre, che ne è stata la causa scatenante: avere ai confini delle forze nemiche che costantemente lanciano o possono lanciare missili, razzi e droni sulle città e sulle strutture non è una cosa accettabile.
Ciò che è in discussione è però il modo con cui Israele opera: bombardamenti a tappeto che, per quanto “mirati” (a loro dire), producono la morte di migliaia e migliaia di vite umane.
Se in un palazzo, in una casa, in una scuola, in un ospedale, Israele ritiene che si rifugi un militante di Hamas, bombarda senza preoccuparsi delle vittime civili.
Ciò che incute indignazione è che oramai per Israele questa è una pratica costante che non provoca nessun scrupolo morale.
E’ indubbiamente un grave capo di accusa nei confronti della democrazia di Israele (al di là di come lo si voglia definire: eccidio, massacro, genocidio…).
Siamo pertanto di fronte a una “democrazia limitata”, a causa di questa infrazione delle regole del diritto internazionale e umanitario, ma anche di altri due fattori rilevanti: lo stato di sottomissione in cui mantiene il popolo palestinese da molti anni e l’aver fatto dello Stato d’Israele, con la legge del 2017, uno Stato dei soli ebrei, dunque uno Stato religioso identitario.
Si sente di continuo ripetere che Israele è l’unica democrazia della regione; forse sarebbe meglio dire, anche per capire di quale democrazia si tratti, che Israele è un’isola occidentale in mezzo a un mondo interamente islamico, una realtà che viene vissuta come estranea.
Da qui dunque l’ostilità degli Stati, e più ancora dei popoli, islamici e il loro parteggiare per il popolo palestinese: atteggiamento fatto proprio dalla maggior parte dei popoli del Sud che dietro Israele vedono la continuazione delle vecchie tradizioni coloniali.
Molti Stati, come succede spesso all’ONU, sono contro Israele; poi magari usano anche posizioni antisemite, ma queste vengono dopo, quasi per rincarare la dose, approfondire il solco.
Dunque, la divisone presente è molto profonda e ci vorrà tempo ed energia per risanarla, ammesso che lo si voglia.
La possibilità di uscirne è senza dubbio e innanzitutto nelle mani dei popoli interessati, degli israeliani prima e poi dei palestinesi, e sta nella proposta di costruire una convivenza tra loro nella sicurezza reciproca.
Si parla di due popoli e due Stati, ma Israele non ci crede e sia il suo Parlamento che un’ampia parte della popolazione si esprime negativamente a riguardo.
La debolezza della posizione di Israele consiste nel non vedere e non prefigurare nessuna prospettiva futura per il popolo palestinese: con l’occupazione di Gaza e la costante avanzata dei coloni in Cisgiordania, la terra riservata ai palestinesi si riduce sempre di più, mentre la popolazione aumenta. Sembra così profilarsi per i palestinesi una condizione di ulteriore subalternità e di difficoltà concreta di vita.
Una soluzione di questa natura non accettabile, anche perché destinata a suscitare un ulteriore risentimento a livello mondiale.
Se gli Stati Uniti, superata questa fase critica, volessero veramente fare qualcosa di positivo in quest’area (invece di tanti richiami del tutto inutili alla moderazione e senza ricordare i precedenti disastrosi interventi in Iraq e in Afghanistan) potrebbero con convinzione “invitare” Israele ad accettare la soluzione dei due Stati e sostenerla con la propria azione.
Chiaramente occorrerebbe uno Stato palestinese in grado di prendere in mano seriamente la situazione rinunciando ad ogni azione di guerra e di offesa nei confronti di Israele (ciò che potrebbe avvenire con una presenza e garanzia di stati arabi “neutrali”, cominciando da Gaza).
Questa soluzione proprio perché offrirebbe una risposta al problema del popolo palestinese, dovrebbe rendere inutile la presenza di una guerriglia (Hamas e Hezbollah) a suo favore, che pertanto dovrebbe essere fermata.
Avviare queto processo consentirebbe anche un chiarimento necessario: se la battaglia non è più a favore dei palestinesi, ma è rivolta alla distruzione di Israele, allora sarebbero più chiare le posizioni dei diversi Stati e ciò permetterebbe di distinguere fra chi vuole la guerra per la guerra e chi vuole la pace e risolvere i problemi.
Diverso sarebbe anche l’atteggiamento dell’opinione mondiale, perché non si tratterebbe più di difendere un popolo oppresso, ma di una guerra contro uno Stato che ha diritto alla sua indipendenza e alla sua sicurezza.

Sandro Antoniazzi