di Sandro Antoniazzi
Alcuni amici provenienti dalla Cisl mi hanno chiesto cosa penso dell’autonomia differenziata e dell’atteggiamento della Cisl, in parte spinti da un articolo critico sull’argomento di Savino Pezzotta, già Segretario Generale della Confederazione.
In proposito è molto utile una recente dichiarazione di Sbarra, attuale Segretario Generale della Cisl, secondo cui il sindacato non prende posizione sui due referendum -premierato e autonomia differenziata – in quanto trattasi di materia politica; il sindacato interviene sui problemi politici solo quando riguardano il lavoro e i problemi sociali.
Principio valido e coerente che Sbarra usa anche per polemizzare con Landini, perché farebbe più azione politica che sindacale.
Ma se il principio è giusto, è la sua applicazione che richiede qualche chiarimento.
Prendiamo il primo dei due temi, quello più politico, il premierato; questa riforma stravolge il ruolo del Parlamento e del Presidente della Repubblica, in quanto al primo viene sottratto il suo carattere autonomo e il Presidente della Repubblica viene ridotto a una funzione formale, togliendogli quel ruolo di garanzia e di equilibrio così fondamentale a livello istituzionale.
Che la Costituzione venga profondamente sconvolta a danno della sua dimensione democratica non interessa il sindacato? Io penso di sì, perché si tratta dei fondamenti della nostra democrazia su cui tutto si regge, anche la politica sociale e del lavoro.
Ma veniamo all’autonomia differenziata: in una memoria presentata alla Commissione Affari Costituzionali del Senato della Repubblica il 25 maggio del 2023 – dunque in un momento in cui il confronto era ancora disteso – la Cisl richiamava con molta precisione i limiti del provvedimento, che possiamo brevemente sintetizzare:
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Il Parlamento viene totalmente escluso dal processo, in quanto può solo esprimere, sulle singole intese, il proprio parere con “atti di indirizzo”, cioè un parere non vincolante
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I LEP (livelli essenziali di prestazione) che dovrebbero garantire una certa unità nazionale, saranno decisi con decreto ministeriale (al momento non esistono e sono rinviati di due anni, mentre sono molti, anche nella Cisl che chiedevano di far partire la riforma solo dopo l’approvazione dei LEP).
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Le questioni finanziarie sono di competenza di una Commissione Stato-Regioni (per lo Stato i compiti sono attribuiti alla Presidente del Consiglio, di concerto con il Ministro degli Affari Regionali)). Si rileva che la Commissione ha uno stretto carattere amministrativo, mentre si trova ad assumere valutazioni complesse che richiederebbero un ampio confronto.
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E’ eliminato il fondo perequativo.
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Per realizzare un’autonomia che mantenga la coesione sociale sono necessarie risorse che non sono previste (E’ un altro caso di riforme senza finanziamenti che sembra una prerogativa di questo governo, come è già successo per la legge sulla non-autosufficienza).
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Per quanto riguarda il finanziamento regionale si parla solo della quota delle tasse che saranno trattenute dalla fiscalità generale per destinarle alle Regioni, ma non si parla dei “tributi” che autonomamente le Regioni sono in grado di stabilire.
E, conclusivamente, la Cisl sosteneva che la riforma doveva essere “partecipata e solidale”.
Ora se si guarda alle funzioni oggetto del possibile trasferimento alle Regioni, troviamo materie come la scuola e la sanità, per citare solo le maggiori: se domani una Regione decide salari più elevati per queste categorie cosa farà il sindacato?
La Cisl ha messo le mani avanti per la scuola sostenendo che il personale scolastico, docente e amministrativo, debba avere un trattamento unico in tutto il paese e chiede per questo, sommessamente, di essere invitata alla Commissione Stato-Regioni. Ma si tratta di idee estranee alla legge.
In pratica quelle che per la Cisl – in un momento di dibattito aperto- erano osservazioni, sono diventate oggi le critiche di chi non condivide la riforma.
Anche la Cisl dovrebbe prendere atto che nessuna delle sue posizioni è stata recepita e che il testo approvato è carico di problemi che domani possono diventare tensioni serie nel paese, lontane da quella riforma partecipata e solidale che la stessa Cisl auspicava.
La premura di Salvini di far approvare una “sua legge”, anche per esigenze elettorali, ha portato a un risultato molto contradditorio e lacunoso.
Questo tema per il suo interesse nazionale, per le istituzioni che coinvolge, per la delicatezza dei rapporti tra istituzioni, per quello che può determinare nel futuro del paese, richiedeva una gestione più meditata e con una partecipazione effettiva di un vasto arco di interlocutori (a partire dall’opposizione e dalle Regioni, alcune delle quali si sono poi lamentate a posteriori, a cose fatte).
Le grandi riforme vanno realizzate con un consenso amplissimo e non con un atto di forza richiesto da un partito (la Lega) che gli altri partiti – alleati nel potere – hanno dovuto, per convenienza, accettare.
Cosa può fare oggi la Cisl? Se non si sente di dare l’adesione al referendum per una questione di principio, di autonomia e distinzione dalla politica, può egualmente fare molto, proprio come sindacato.
La Cisl potrebbe assumere un’importante iniziativa di informazione e di formazione a largo raggio, come è nella sua tradizione e come è nel migliore spirito del sindacalismo che mette sempre alla base l’elevazione morale e culturale dei lavoratori.
Le idee da esprimere sono quelle contenute nella Memoria del maggio 2023; ripresentandole oggi la Cisl offrirebbe ai lavoratori elementi essenziali di conoscenza e metterebbe anche le mani avanti rispetto ai problemi che potrebbero sorgere domani.
Saranno poi le Categorie, le Unioni e soprattutto i lavoratori (che sono quelli che votano) a decidere cosa fare, una volta in possesso di elementi validi di valutazione.
Non fare niente non costituirebbe una posizione di neutralità, sarebbe un lavarsene le mani, atteggiamento che certamente non si addice a un sindacato responsabile.
Sandro Antoniazzi