Scelta soggettiva e legami sociali

di Giuseppe Oreste Pozzi

“Tu sei un ragazzo – disse il preside davanti alla madre di Gianburrasca – I ragazzi devono portare rispetto a tutti”. Ma nessuno è obbligato a portare rispetto ai ragazzi! E questo si chiama ragionare? – Diceva tra sé Gianburrasca.

Il bellissimo e dotto articolo di Vito Mancuso, La Stampa (venerdì 6/1/23) dal titolo “Quella messa recitata in latino e il bivio della identità cristiana” (sottotitolo “L’Occidente unificato dalla partecipazione alla cerimonia religiosa di un capo della Chiesa”), mostra le fazioni politiche che si fronteggiano, ora che il testamento di Ratzinger viene, forse troppo politicamente, interpretato. Gli fa eco un altro articolo dal titolo che vorrebbe forse andare oltre le fazioni politiche, almeno credo. Un editoriale di Avvenire, scritto sabato 7/1/23, da Andrea RicciardiStoria e Chiesa da vivere ora”. I progressisti ed i conservatori citati da Mancuso sembra pretendano una scelta di campo politica e sociale come a dire “o” con noi o contro di noi. Il solito e distruttivo schema amico-nemico? Ho imparato, che la scelta di campo, la “o” della scelta di campo, è un atto soggettivo perché esistenziale e, quindi, privato, addirittura segreto. Si tratta di un atto scelto, da cui tutta una vita ne viene orientata. Nel sociale è tutto molto diverso. Nel sociale la grande sfida della complessità sta nel pensare e lavorare per una “e” che faccia da legame e che trovi il modo di costruire legami. C’è da chiedersi, allora, se la politica, come la religione, per così dire, non debba costruire e lavorare, sul piano sociale, per l’avvento delle “e”. Nella società “globalizzata e nuclearizzata” entrambe, politica e religione, insieme, forse, dovrebbero tendere all’inclusione. Una “o” per la scelta soggettiva ed esistenziale ed una “e” per il legame sociale. Non è un caso che Joseph Ratzinger, come soggetto con il suo atto scelto, abbia sollecitato Benedetto XVI, come capo della Chiesa, a fare un passo indietro proprio per lasciare a Dio, come lui stesso sostiene, magari anche con il proprio silenzio personale di uomo in difficoltà, lo spazio necessario per la costruzione faticosa (immensa ma, evidentemente, non così “impossibile”) di una “e” che faccia da legame. Certo occorre ed occorrerà ricostruire dalle solite, queste sì, macerie che la guerra, tra le contrapposizioni di interessi, determina, ineluttabilmente. Lo scrisse, non a caso lui stesso, nel suo profetico discorso del 1969, oggi definito “La profezia di Joseph Ratzinger”, ripreso da molti in questo periodo. Sono parole da meditare: parla di una Chiesa più spirituale e semplificata. Perché non anche la politica? Preconizza una Chiesa degli indigenti dove gli uomini scopriranno di abitare un mondo di indescrivibile solitudine. Quella che si vive dopo la distruzione della “propria” terra, del “proprio” modo di vivere. La profezia termina con parole che rimandano ad una risposta che, per ciascuno, uno per uno, c’era già da sempre e che si conosceva, nel proprio segreto, già da prima della distruzione: “Allora, e solo allora, vedranno quel piccolo gregge di credenti come qualcosa di totalmente nuovo: lo scopriranno come speranza per sé stessi, la risposta che avevano sempre cercato in segreto”.

Interessi e poteri o del godimento mortifero in economia

La storia non conosce se non guerre dettate dagli interessi del potere godente della propria forza, del potere godente e distruttivo del nemico, costruito con calcolo, per ledere gli interessi del nemico. Una rete di potere e di appartenenza a sostegno di una supposta esclusività e rivalità insanabili. Eppure basterebbe leggere i libri e le ricerche di Gaël Giraud o dell’italiano Luigino Bruni, per citare economisti noti e accorti, per capire che esistono beni non esclusivi e non rivali dove la “e” può incominciare a costruirsi sia politicamente, sia religiosamente. Sono chiamati già da tempo “beni comuni” (l’ambiente, l’acqua, le foreste, la superficie coltivabile, solo per incominciare con qualche esempio) come proposta concreta, pratica e pragmatica per uscire dalla trappola della dicotomia privato/pubblico – amico/nemico. È ora, in effetti, di rompere con la presunta messianica promessa sociale della bontà sociale delle privatizzazioni e del “libero” scambio “garantito” dal mercato. Si tratta di falsità così evidenti agli stessi economisti che ormai sono arrivate anche ai nostri nipoti che vedono continuamente distrutto, ogni giorno, il loro futuro. Il delirio del potere degli interessi che costruiscono ricchezze sulle spalle dei cittadini (il popolo) che, inconsapevolmente, le sostengono con il loro voto, con la loro fatica e con la loro povertà giornaliera. Se è questo, come credo, a cui porta la “o” che definisce i progressisti contro i conservatori, sul piano sociale, allora No grazie. Il vero conflitto è, ed occorre che rimanga o torni ad essere, soggettivo (o segreto se vogliamo) tra la scelta personale (la “o” che ciascuno è tenuto ad assumere nel segreto del proprio atto esistenziale) ed il legame sociale (la “e” che va costruita, però) che richiede un lavoro sistematico e portato avanti faticosamente, ogni giorno. Questa “e” però è pubblica e giudicabile, perché sostenibile pubblicamente, apertamente. Negoziata dialetticamente, ovviamente, ma resa condivisibile in una comunità che impara fin dall’infanzia, in famiglia e nella scuola a rispettare i beni comuni proprio perché non sono né propri né di interesse solo per qualcuno. Il bene comune a ben guardare evoca la forza del dono reciproco, perché non appartiene al gioco del debito e del credito del “libero” mercato – che libero non è affatto – ma alla discussione libera perché pubblica, aperta, condivisa. Non c’è condivisione possibile senza dono reciproco di beni che, per questo, diventano condivisibili. Siamo pur sempre nel campo della necessità (della ανανγκη) ma che richiede una libera accettazione di reciprocità. I bimbi, a scuola, la cultura della reciprocità, non fanno così tanta fatica ad impararla, accoglierla e praticarla. Anche Gianburrasca conosce bene la forza del dono della reciprocità, proprio perché la sa usare, astutamente, nella sua forma negativa, quella che gli adulti, con le loro falsità, continuano a mostrargli e, quindi ad insegnargli. La reciprocità, quella al positivo, dovrà allora essere molto ma molto ben coltivata e mantenuta perché possa diventare un patrimonio culturale diffuso.

Soli nella scelta ma non in solitudine

Perché iscriversi ad un partito politico? Perché, forse, si può riconoscere chi ha fatto una scelta esistenziale soggettiva e sa cosa voglia dire, per esempio, costruire, con le proprie scelte soggettive, anche un legame sociale da lavorare magari insieme, non da soli e come comunità. Per capire se fare un passo verso un’appartenenza “libera” ci vuole tempo, certamente, ma, come insegna Seneca con le sue lettere a Lucillo, esiste sempre un apprendimento di base che ci mette nella disposizione di un incontro necessario e possibile. Un incontro che è sempre già un po’ preparato da ciò che possiamo avere già imparato anche se va ascoltato con un po’ di franchezza con sé stessi e non troppo filtrato solo dall’interesse narcisistico per il potere: “Perché si chiamano studi liberali lo capisci: perché sono degni di un uomo libero. Ma l’unico studio veramente liberale è quello che rende liberi, cioè lo studio della saggezza, sublime, forte, nobile: gli altri sono insignificanti e puerili. Pensi che in questi studi di cui sono maestri gli uomini più infami e dissoluti ci sia qualcosa di buono? Queste cose non dobbiamo impararle, ma averle imparate”¹. Troppo spesso nei gruppi di appartenenza ci sono i cattivi maestri riconoscibili e additati da Seneca, che cercano il sostegno nel gruppo con interessi omogenei, contro nemici con interessi opposti. È un modo elementare ma perverso di eliminare il terzo. Questo significa, inevitabilmente, interpretare la realtà usando come chiave di lettura i propri interessi per il potere. Il potere per il potere è una scelta che trascina alla guerra, nega il legame sociale in quanto tale, per istituirne uno mortifero tra appartenenze e correnti. Siamo già nel regno della negazione della politica dove il potere mira ad una contabilità tesa a valorizzare solo interessi di parte. Il potere ha sempre la necessità di venire contenuto ed essere smontato da un po’ di ironia come saprebbe fare un buon giullare a cui è riconosciuta la libertà di parola. Diversamente si crea un contropotere strutturalmente simile a ciò che si vuole combattere. Il popolo, così tanto usato e dietro cui si nasconde, con vigliaccheria, il potere è, in realtà, molto sensibile alla satira che ne demolisce la struttura. Un altro modo per superare la dicotomia amico/nemico – pubblico/privato è anche quella di introdurre allora una condizione terza, impossibile da non condividere, come quella che è insita nella reciprocità del bene riconosciuto come bene (dono) comune. In fondo è proprio il termine democrazia che sollecita tutti i governi, appena insediati, a rassicurare i cittadini con la consueta promessa: governo per tutti. È inevitabile che una tale promessa debba disattendere qualche aspirazione di interessi “troppo” privati della rete di appartenenza e della rete delle correnti, a favore della reciprocità del bene/dono comune.


¹ Lucio Anneo Seneca, Lettere a Lucillo, Libri undicesimo-tredicesimo, capitolo 88, paragrafo 2.