La Chiesa, segno di solidarietà?

di Etienne Grieu sj

 

Questa conferenza del padre Etiemnne Grieu sj, noto teolgo francese, costituisce un’importante riflessione sull’impegno sociale dei cristiani.

Può contribuire, con altri testi, a fondare una solida base teologica al nostro lavoro.

– Sandro Antoniazzi

 

Il mio intervento sulla questione “La Chiesa segno di solidarietà?” sarà declinato in diverse direzioni:

^ La solidarietà ha qualcosa a che vedere con quello che essa è, che la definisce? Oppure si tratta di un elemento accessorio (che le può mancare senza che sia messa in causa nella sua stessa natura)?

^ Quale ruolo le persone che soffrono o in grande precarietà (i poveri) possono giocare in questa dimensione della missione della chiesa?

^ E poi, come può essere segno di solidarietà nel contesto attuale?

Propongo tre tempi per la riflessione:

  • Si partirà dal posto che la chiesa attribuisce alla nozione di solidarietà (essenzialmente a partire dai testi del Vaticano II e di Giovanni Paolo II) per constatare che la solidarietà non è per niente qualcosa di opzionale, ma fa parte del cuore della sua missione.

  • Ma altrettanto, dobbiamo aggiungere, questa vocazione della chiesa non può esprimersi come qualcosa “tra noi”, ma si esprime al meglio nelle storie che essa stabilisce con le persone in difficoltà, ciò che fa della chiesa un’istituzione strutturalmente aperta a coloro che vengono a disturbarla. La chiesa non può essere segno di solidarietà senza essere scossa da costoro; essa non è per principio un gruppo ben costituito che decide poi di fare del bene a coloro che ne hanno bisogno; no, essa è “segno” quando si lascia disturbare. Si potrebbe dire essa dimostra di volere lasciarsi disturbare.

  • Nell’ultima parte, sosterrò che è senz’altro questo il miglior servizio che la chiesa può rendere nel contesto attuale. Cercherò di spiegare perché abbiamo un bisogno urgente in una società dell’efficienza e della competizione di ritrovare quelli che non contano.

  1. La Chiesa si presenta come segno di solidarietà.

Col Vaticano II la chiesa prende coscienza di avere un appuntamento cruciale relativo alla solidarietà. Già prima si era scoperto il legame sociale come qualcosa che si costruisce e dunque che non è qualcosa di immediatamente evidente.

  1. La solidarietà, un vocabolario introdotto di recente nella Chiesa.

Occorre innanzitutto ricordare che il vocabolario della solidarietà è stato integrato solo tardivamente nel discorso del magistero. La parola solidarietà proviene dal vocabolario giuridico: esprime un tipo di contratto nel quale i partecipanti hanno un’obbligazione comune e dove ciascuno è responsabile per tutti gli altri (s’impegna, all’occorrenza, a rimborsare da solo l’intera somma).

Il termine è stato promosso nel discorso sociale per contrastare la carità e la fraternità, privilegiate dalla chiesa. In effetti, solidarietà evoca un legame sociale costruito, e questo confliggeva con la volontà di sostenere la società come dono ricevuto da Dio, come la chiesa intendeva proporre.

La nozione di solidarietà forniva una base per pensare agli sforzi da fare per assistere coloro che sono in pericolo. Il termine solidarietà particolarmente ha consentito di legittimare la progressione fiscale sui redditi e i contributi sociali obbligatori.

Ciò permette di segnalare anche che la nozione, di per sé, non è in grado di interessare tutti: si è nel registro giuridico e il problema è la ripartizione degli sforzi contributivi, che vanno a toccare gli uni e gli altri in modo differente. Chi può essere soddisfatto? Non i contribuenti e neppure i beneficiari, che possono essere vittime di storture delle contribuzioni differenziate.

Dalla parte della chiesa è col Vaticano II che il termine fa la sua apparizione nei testi del magistero. Ed è Giovanni Paolo II che lo valorizzerà facendo della solidarietà una quasi virtù teologale della dimensione sociale.

b) Vaticano ii. La Chiesa segno attivo di solidarietà.

Nella Gaudium et Spes si parla della solidarietà come della coscienza di una interdipendenza che diventa sempre più manifesta (con l’accrescimento degli scambi a livello globale); ciò che aumenta parallelamente la coscienza di una responsabilità, mentre nello stesso tempo, gli autori precisano che la coesistenza non è mai evidente “Mentre il mondo prende una coscienza così forte della sua unità, della dipendenza reciproca di tutti in una solidarietà necessaria, eccola violentemente scartata dall’opposizione di forze che la combattono”.

E’ innanzitutto la solidarietà del genere umano che è in questione, solidarietà che richiama una cooperazione internazionale, in particolare in campo economico (GS, 84) e in quello della promozione della pace.

Dunque si può notare, nella prospettiva conciliare, un’estensione massima della solidarietà; essa non riguarda solamente la dimensione di una società, ma quella del mondo, dell’umanità.

Questa solidarietà non è soltanto un fenomeno umano, il concilio ne offre una lettura teologica, sottolineando che tutta l’umanità forma una sola comunità per il fatto dell’origine comune (Nostra aetate, 1); e poi la rilegge alla luce dell’Incarnazione “Assumendo la natura umana è tutta l’umanità che egli (Cristo) si è unito per una solidarietà sovrannaturale che ne fa una sola famiglia” (Apostolicam Actuositatem, 8).

Ed è in questa prospettiva, penso, che il Concilio definisce la Chiesa come essere “nel Cristo in un certo modo il sacramento, cioè allo stesso tempo, il segno e il mezzo dell’unione intima con Dio e dell’unità del genere umano” (LG, 1). Si traccia qui la missione della chiesa, la sua ragione d’essere il segno (non solo un segno di tipo informativo, è un segno che mette in relazione, che permette di essere visitato da colui che emette il segno e, in questo senso, è un sacramento) dell’unione intima con Dio e dell’unità del genere umano.

Ed è importante che la cosa sia espressa in una sola frase, che sottolinea così che si tratta di un solo e medesimo movimento. E’ a partire da qui che si può comprendere in tutta la sua forza l’affermazione che chiude il paragrafo della Gaudium et Spes “La comunità dei cristiani si riconosce dunque realmente e intimamente solidale con il genere umano e la sua storia” (GS,1)

La stessa espressione è ripresa più volte. Così nel decreto sulle missioni è detto “essi (i laici) devono unirsi a loro concittadini con una carità sincera, affinchè nel loro comportamento appaia un nuovo legame d’unità e di solidarietà universale, posta nel mistero di Cristo” (Ad gentes, 21). E Gaudium et Spes richiama decisamente sul rispetto degli obblighi che la preoccupazione della solidarietà impone: “Ci sono delle persone che, professando idee larghe e generose, continuano a vivere in pratica senza aver cura delle solidarietà sociali. Più ancora, in alcuni paesi, si fa poco caso delle leggi e delle prescrizioni sociali. Molti non temono di sottrarsi, con sotterfugi e frodi, alle giuste imposte e ad altri aspetti del dovere sociale” (GS, 30). Questo appello si riferisce a tutti gli uomini, ma evidentemente i cattolici sono i primi interessati poiché si tratta di un appello della loro chiesa.

c) Giovanni Paolo II. La solidarietà come quasi virtù teologale di dimensione sociale.

Giovanni Paolo II riprenderà questi temi nella sua enciclica Sollicitudo rei socialis, accentuando la lettura teologale, a cui la fede cristiana invita:

..la coscienza della paternità comune di Dio, della fratellanza di tutti gli uomini in Cristo, ”figli del Figlio”, della presenza e dell’azione vivificante dello Spirito Santo, conferirà al nostro sguardo sul mondo come un nuovo criterio per interpretarlo. Al di là dei vincoli umani e naturali, già così forti e stretti, si prospetta alla luce della fede un nuovo modello di unità del genere umano, al quale deve ispirarsi, in ultima istanza, la solidarietà. Questo supremo modello di unità, riflesso della vita intima di Dio, uno in tre Persone, è ciò che noi cristiani designiamo con la parola “comunione” (SRS, 40).

Con questo testo, vediamo che con Giovanni Paolo II la nozione di solidarietà diviene teologicamente molto rilevante; è il riflesso dell’unità di cui vive il Dio trinitario. Così, in questa prospettiva, impegnarsi nella solidarietà sarebbe militare per far passare in campo sociale qualcosa dell’amore di cui Dio stesso è formato. E’ una visione molto alta dell’impegno sociale.

Al termine di questa prima sezione, si può dire, calcando un po’ i toni, che ci si trova davanti a due versioni della solidarietà:

  • Quella che la vede come un dispositivo giuridico che mette in opera un obbligo differenziato, necessario per correggere delle diseguaglianze troppo stridenti (e direi che rischia di non essere apprezzata da molti)

  • Oppure la versione cristiana teologizzata, che vede nella solidarietà l’espressione del legame al quale gli umani sono chiamati a Dio. Qui, alcuni possono sentirsi attratti, e altri invece per niente.

Se si rimane a queste due versioni come tali, penso che non andremo certamente molto lontano. Due rappresentazioni si oppongono, anche se si possono senza dubbio, vedere in modo complementare. Ma se si vuole che le cose si muovano e che ci sia un risveglio della solidarietà al di là della piccola cerchia dei fedeli, penso che occorra ritornare alla questione dei poveri come membri della chiesa, di coloro che di solito rimangono fuori dalla chiesa. E’ a partire da là che si aprono le possibilità di ritrovare il gusto della solidarietà aggiungendo anche che non si tratta di una scappatoia in un immaginario facile né di una lettura irenica della realtà, perché, al contrario, si accetta di affrontare delle grandi difficoltà.

  1. Quando coloro che abitualmente sono lasciati fuori gioco vengono presi sul serio.

E’ bene partire dalle esperienze di Diaconia (si tratta di una esperienza della chiesa francese. NdR) perchè emblematica di che cosa cambia quando le persone in grande precarietà trovano posto nella Chiesa. Sia ben chiaro che non bisogna dimenticare che Diaconia si iscrive in un movimento di riflessione e di esperienze di parecchi decenni, che ha reso possibile questa innovazione.

  1. Ritorno sull’esperienza Diaconia.

L’elemento chiave, che ha colpito la maggior parte dei partecipanti a Diaconia, è che le persone segnate dalla grande povertà sono state considerate come gli attori maggiori di un avvenimento della chiesa, di un’esperienza di primo piano della chiesa in Francia.

All’inizio dell’assemblea si è ascoltato quello che aveva preparato il gruppo “Posto e parola dei poveri” e si è visto un video realizzato dai detenuti della prigione di Béziers che commentava un testo del vangelo. E alla fine dell’assemblea il gruppo “Posto e parola dei poveri” ha nuovamente preso la parola per dare la sua lettura dell’avvenimento.

Perché questo ha colpito molto?

Forse perchè non è consueto; ci si meraviglia che delle persone segnate dalla miseria osino, essi hanno parlato con molta forza. Facevano delle proposte per la chiesa e si sentiva che dietro c’era una certa visione delle cose, un pensiero che si esprimeva.

E poi ci ha colpito senza dubbio perché abbiamo visto quello che ha prodotto: la parola di qualcuno ha consentito di liberare la parola di molti altri (soprattutto tra i 12.000 partecipanti c’era un quarto di persone in grande precarietà). Tutti noi abbiamo fatto l’esperienza della semplicità di rapporti che ha permesso, come di una nuova prossimità degli uni verso gli altri.

Come il gruppo “Posto e parola dei poveri” realizzano la cosa? E’ sufficiente rifarsi al piccolo libro pubblicato dalle edizioni francescane nella collezione “Serviamo la fraternità”: “Chiesa, quando i poveri prendono la parola”. Commento tre passaggi di una riflessione a posteriori, elaborata da questo gruppo che si è tenuta in questo centro, Centre Sèvres, nel novembre 2013.

Ci sono troppe persone che sanno, che conoscono tutto. Allora non si può parlare, perché non si crede di avere delle cose da dire e ancor meno che possano interessare gli altri. Per esempio, le persone che vogliono aiutare, dicono spesso “Lo sò”, ma se si prendono il tempo di ascoltare, dicono “Ah, questo non lo sapevo”.

Commento: dire “Io sò” può essere una maniera di esprimere che non c’è niente di nuovo da capire, che si è pervenuti a un punto ottimale di comprensione. Già i filosofi ci avevano messo in guardia e proponevano una figura totalmente opposta, che consisteva nel riconoscere che “Io non so”. Ci sono dunque dei modi di parlare, di condividere la conoscenza o una questione di senso, che possono sia impedire altre parole o, al contrario, richiamarle. Qui possiamo dire che delle persone in precarietà invitano a un discernimento: esse chiedono quale tipo di parola tu vuoi proporre? Una parola che blocca o una che ne richiama delle altre? E ciò che dicono è tanto più importante perché non si pongono sul piano teorico, ma a partire da ciò che sentono quando qualcuno dice “Io so” e che può avere l’effetto di mettere fuori gioco. Questo piccolo testo afferma che è alla portata di tutti scoprire che non si sa; è sufficiente, infatti, ascoltare. E allora, sorpresi, si dirà “Ah, questo non l’ho sentito da altri, è originale, perché questo ci ha permesso di dire quello che si aveva il desiderio di dire”.

Quando si è ascoltati, e anche quando si ascolta, questo aiuta a progredire. E questo consente di vivere con gli altri, mentre per oltre trent’anni, non avevo vissuto che per i miei figli. Il gruppo mi ha aiutato a credere che esistevo e che ero qualcuno”.

La persona che si esprime così indica un punto capitale: noi abbiamo assolutamente bisogno degli altri per vivere, per “credere che si esiste e che si è qualcuno”. Questo sottolinea il fatto che esistere non è un dato di fatto, qualcosa che va da sé, non è mai un’evidenza, ma è dell’ordine del credere, e di un credere che ha bisogno degli altri.

E’ piuttosto interessante: perché quello che ci viene detto qui è che la vita insieme – e la solidarietà ha qualcosa a che vedere a riguardo – è il luogo della genesi di qualcuno, nella quale egli riceve l’essere singolare, incomparabile e, dunque per definizione, difficilmente comprensibile, che egli è. E solo degli interlocutori attivi, cioè delle libertà che si impegnano, permettono a delle singolarità di prendere coscienza di sé stesse.

Parentesi: se si vuole essere più precisi e domandarsi quali sono gli ingredienti che permettono o non permettono, questa genesi del soggetto, posso solo avanzare le mie opinioni:

  • Il riferimento a un soggetto riguarda un impegno della società nei confronti dei suoi membri, senza specifiche condizioni (dunque che non dipende dalla loro particolarità) e dunque che potrà esprimersi in termini di diritti; si stabilisce un gioco, dunque, tra questo tipo di impegno che è per tutti e un altro tipo di impegno nel quale ci si rivolge al singolo, due tipi di impegno diversi. C’è certamente bisogno di entrambi i due tipi di impegno perché un soggetto possa nascere a sé stesso.

  • Si può aggiungere che la crescita di un soggetto riguarda senza dubbio un gioco tra ciò che possiamo chiamare prove qualificanti (dove si affrontano difficoltà oggettive) e avvenimenti che si iscrivono in un registro simbolico, per esempio, la gioia di essere insieme (feste, celebrazioni). Anche in questo caso c’è bisogno di una combinazione di questi due ingredienti per crescere.

  • Inoltre potete vedere come si tratti di interventi che non possono essere assunti da una sola persona: c’è bisogno per questo, nello stesso tempo, dei poteri pubblici, della società civile, di attori particolari e anche delle chiese. Non si può prendere il posto di altri, ma ognuno ha il suo contributo specifico da apportare.

Se cerchiamo un modo per riattivare la solidarietà, mi sembra che qui abbiamo una pista interessante: la genesi di ciascuno non può aver luogo senza l’impegno degli altri. Il campo sociale non è solamente il luogo del confronto di interessi opposti, è anche il luogo della genesi di ciascuno. Ciò è piuttosto interessante e per definizione questo concerne ciascuno.

Mi sono accorto, ascoltando gli altri, di scoprire dei tesori che non devono andare perduti. Gli altri ci permettono di scoprire Dio, perché Dio è entrato in modo diverso in ciascuno di noi e ogni cammino che ha preso Dio ci dice un poco di Dio”.

Qui avete la versione teologizzata di ciò che abbiamo detto poco fa sul legame sociale: il vivere insieme è anche un luogo dove si scopre Dio, dove l’infinita varietà di espressioni del suo essere non finisce mai di rivelarsi, nella misura in cui scopro dei cammini differenti dai miei.

Mi fermo qui per la Diaconia; semplicemente per evocare ciò che può mettere in azione l’espressione delle persone che spesso non sono ascoltate.

Mi sembra che qui si scopra il cuore della solidarietà: nel contatto delle persone segnate dalla miseria, la prima questione non sono le risorse da ripartire meglio, ma innanzitutto un legame che permette la genesi di ciascuno.

C’è qui da riscoprire la solidarietà e ridistribuirne i sapori: rilanciare la solidarietà perché noi siamo giunti fino al punto in cui si capisce che il vivere insieme è innanzitutto un appello all’esistenza che noi trasmettiamo e che mette ciascuno in genesi. Siamo qui condotti al cuore di questa realtà misteriosa che chiamiamo legame sociale.

E i credenti possono leggere questo richiamo, che avvertono attraverso ogni legame sociale, come l’opera di un Dio creatore, che chiama all’esistenza. Allora vivere insieme diventa un luogo dove si fa esperienza di Dio creatore e salvatore. Ma questa lettura credente non è per nulla obbligatoria: è un atto di libertà che i credenti possono fare, facendo questa esperienza di genesi.

  1. Quale chiesa?

A partire da questo ritorniamo alla nostra riflessione sulla chiesa come segno di solidarietà e cerchiamo di comprendere meglio che cosa vuol dire.

Che la chiesa sia segno di solidarietà innanzitutto non vuol dire che sostiene un’etica che incita a prendersi cura di ogni persona. Questo è vero, sia chiaro, ma non è l’alfa e l’omega degli impegni sociali dei cristiani, perché questa lettura può rivelarsi presto un po’ stretta, un po’ soffocante. Si può trasformare in un obbligo; lo si vedrà dalla cattiva coscienza che non tarderà a produrre. Ora, obbligo e cattiva coscienza non sono i motori migliori dell’impegno sociale.

Infatti, per comprendere la chiesa e il posto che tengono quelli che vivono “ai bordi del mondo” non c’è migliore scuola che quella che consiste a rituffarsi nel vangelo.

E là non si può non essere stupiti dallo spazio considerevole occupato dalle persone in difficoltà che vengono a supplicare Gesù, sia per se stesse (i lebbrosi, ad esempio, o Bartimeo, o ancora la donna emorroissa), sia per gli altri (Giairo, i quattro uomini che portano il loro amico paralizzato, la donna siro-fenicia). E poi ci sono ancora i posseduti, che giocano un ruolo importante nei vangeli, perché sono occasione per rilevare l’autorità del Cristo e di mostrarne la grandezza.

Se si espurgano dal vangelo tutti questi episodi, non resta più molto da raccontare. Resterebbero i discepoli attorno a Gesù, ma cosa diventano senza tutti questi episodi a volte rocamboleschi dove un mucchio di persone riescono a fendere la folla per gettarsi ai piedi di Gesù? A cosa sembra questo gruppo di discepoli senza tutti questi episodi? A un piccolo gruppo centrato su un leader, radicato nelle sue convinzioni, che diffonde un messaggio. Ma non manca qualcosa? Qualcosa di essenziale per comprendere chi è Gesù, la buona novella che porta, che richiama alla vita coloro che sono minacciati di soccombere e che mette a volte sottosopra i rapporti sociali e le rappresentazioni?

Partendo dai vangeli, penso che noi siamo invitati a ripensare la chiesa, non come l’assemblea dei credenti, ma come il luogo dove la comunione che conduce l’umanità all’esistenza è rivisitata e rinvigorita dagli appelli dei supplicanti e le grida dei posseduti. Ecco credo, una visione della chiesa che si può ricavare a partire dal vangelo. La chiesa, dunque, come lo spazio dove i discepoli e le persone in difficoltà (i poveri) si incontrano e apprendono gli uni dagli altri, per essere insieme ricondotti a ciò che fa veramente vivere e che salva.

  1. La Chiesa segno di solidarietà?

Propongo adesso di ritornare alla questione di partenza: la chiesa può essere segno di una rinnovata solidarietà e se sì, come? Espongo tre convinzioni.

  1. La chiesa è segno se si lascia disturbare

La chiesa non è segno quando parla tutta sola; essa è segno quando si lascia disturbare.

Essa diventa segno quando si lascia disturbare da persone che non aspettava, fra i quali il primo rango è detenuto dalle persone in difficoltà. Si comprende la forza e la pertinenza del messaggio proprio perché si vede l’effetto innanzitutto per la chiesa.

Per lei è scomodo, certamente; ma è a prezzo di questa scomodità che essa è viva e che è sé stessa. La predicazione di Papa Francesco ha rimesso questo tratto della chiesa in primo piano, quando afferma che la chiesa non è fedele alla sua missione se dimentica quelle che lui chiama periferie esistenziali.

La comunità evangelizzatrice, con le sue opere e i suoi gesti, si mette nella vita quotidiana degli altri, raccorcia le distanze, si abbassa sino all’umiliazione se è necessario, e assume la vita umana, toccando la carne sofferente di Cristo nel popolo. Gli evangelizzatori hanno così “odore di pecore” e queste ascoltano la loro voce” ( Evangelii Gaudium, 24).

  1. Un attore tra molti altri

Secondo frutto: la cura delle periferie conduce la chiesa ad allearsi ad altri attori della società civile o provenienti da altre sensibilità religiose. Essa accetta di non giocare un ruolo di autopromozione, ma si riconosce portata da qualcosa che nello stesso tempo la supera e la portano a unire le sue forze ad altre istanze che sono cammini di ricerca vicini al suo.

Ecco un modo per la chiesa di dire il suo messaggio: non preservandosi dagli altri autori portatori di altre sensibilità, ma al contrario, avvicinandoli. E’ nell’incontro e nello scambio che appaiono le differenze e non nel solipsismo.

  1. Un’istituzione paradossale.

Allora la chiesa funziona come un’istituzione paradossale: parla, dice delle cose che fanno senso, per il fatto di essersi lasciata lavorare da qualcosa più grande di lei, che continuamente le sfugge. Essa non è un’istituzione “piena” (che distribuisce un bene che pretende di possedere), ma un’istituzione “vuota”, cioè un’istituzione che dice qualcosa perché si lascia lavorare, si lascia disturbare. E questo tratto si esprime pienamente quando apre uno spazio dove si fa sentire la forza dell’alleanza di cui l’umanità vive, un’alleanza a cui le persone in difficoltà sono particolarmente sensibili e che esse spesso detengono e aiutano a riscoprire.

Conclusioni.

Ciò che è in gioco, attraverso tutto questo, credo che sia per la chiesa la riscoperta dell’autorità della Buona Novella di cui è portatrice.

La modernità ha provocato una crisi profonda delle autorità costituite, particolarmente delle autorità che strutturavano i rapporti sociali. Chi oggi può presentarsi come un’autorità riconosciuta di per sé? Chiunque rifiutasse a priori di sottomettersi all’esame della critica è squalificato e diventa inascoltato. Esce dall’essere credibile.

E’ a questo prezzo che ci siamo guadagnati la libertà contro quelli che appaiono a posteriori come degli abusi di potere e una forte dose di arbitrarietà nelle costruzioni sociali. E non vedo vie per uscire da ciò che costituisce uno dei pilastri fondamentali delle società moderne e post-moderne.

E nello stesso tempo, si deve aver coscienza che questo fattore pone un problema per tutte le istituzioni del vivere comune. Alcuni hanno parlato di società liquide, nelle quali tutti i punti di riferimento si annullano gli uni dopo gli altri, o dove le cose si misurano con dei criteri labili, spesso molto ristretti. Questo produce un malessere, un sentimento di insicurezza; non insisto su questo fatto ben noto.

Ecco il problema: come le chiese possono esistere in questo contesto, come possono dire la forza del loro messaggio, rispettando pienamente le regole di questo gioco, che consiste nel non sottrarsi alla critica?

In risposta a questa sfida, vedo tre piste che mi sembra seguite oggi dalle chiese (non dico, sia chiaro, che siano le uniche):

  • La prima consiste semplicemente nel riaffermare la pretesa della chiesa di essere un’autorità. Ciò conduce a sottolineare tutto quello che nella tradizione cristiana si oppone all’atmosfera attuale: dunque sviluppare un discorso contro-culturale, che parte in guerra contro tutto che esprime relativismo, che mette in discussione norme universali e valori sui quali tutti tendono ad appoggiarsi. E’ la via più allettante in questo momento in occidente. Il pericolo immenso è allora quello di trasformarsi in ideologi arrabbiati; e chiunque abbia un orecchio un po’ esercitato alle armonie del vangelo si rende conto che questo può portarci molto lontano dalla Buona Novella di Cristo.

  • La seconda opzione consiste nel compensare l’indebolimento dell’autorità della chiesa con un appello all’esperienza, particolarmente l’esperienza spirituale (dunque qualcosa di sensibile, che riguarda le emozioni, qualcosa che ci metta in contatto con Dio): la debolezza dell’autorità della chiesa è allora compensata dalla forza dell’esperienza alla quale si è invitati (grosso modo, è la proposta delle chiese evangeliche). Il rischio, qui, è di rinunciare alle nostre responsabilità in rapporto alle cose della Terra (si possono ricordare le considerazioni di Benedetto XVI che insiste sul legame fede e ragione).

  • Una terza pista consiste per la chiesa nel riscoprire l’autorità della Buona Novella, a partire da quella che vive con le persone in difficoltà. La sua autorità allora le è data in occasione dell’incontro. Non può dire che sia lei a costruirla, la riceve. Penso che questo tipo di autorità possa parlare a ogni uomo, perché non si tratta di idee che uno sostiene contro altre idee, né di esperienze straordinarie che potrebbero condurci verso il bizzarro; si tratta semplicemente di essere ricondotti insieme alle sorgenti di ciò che ci fa vivere, là dove avvertiamo un appello che ci supera, ma che ciononostante passa attraverso noi. Chiaramente, queste tre piste non si escludono reciprocamente, e ognuna di esse ha la sua parola da dire, ma la questione per la chiesa è: se dobbiamo scegliere tra le tre, quale può costituire un asse maggiore? Quale può prendere il timone?

Ecco perché penso che Diaconia non sia un dispositivo per rimettere un po’ l’accento sul sociale nella chiesa, ma ci propone di riscoprire – e penso che sia una conseguenza del Vaticano II – un modo di essere chiesa, una chiesa che sia segno, lasciandosi lavorare, e anche disturbare dalla Buona Novella che porta.

Etienne Grieu, sj

(traduzione di una conferenza del padre Grieu, con modesti adeguamenti all’italiano)