L’idea di popolo è tuttora valida?

di Sandro Antoniazzi

Il problema del popolo.

La parola “popolo” ritorna di frequente nei discorsi di Papa Francesco e non certo per dichiarazioni decorative, ma come espressione di un principio essenziale del suo pensiero.

Un problema che il Papa avverte anche sul piano dei sentimenti, se giunge, nella sua ultima enciclica, a vedere nel ferito, soccorso dal buon samaritano, il popolo stesso.

Si potrebbe dire che l’oblìo, il disinteresse che avvolge questa parola, costituisca per il Papa un distacco dal popolo reale, una mossa di distanziamento, di allontanamento.

Eppure questo popolo che facciamo fatica a vedere, che non riusciamo bene a riconoscere, che ci appare evanescente e impalpabile, deve pur esistere, altrimenti, solo per citare un problema, non si capirebbe il gran parlare di populismo.

E ricordando quanto in auge fosse il popolo nel dopoguerra, corpo vivo dei grandi partiti popolari, viene spontaneo domandarsi perché nel tempo sembri sostanzialmente svanito.

Del resto, che il problema esista lo dimostrano gli eterni commenti giornalistici postelettorali che segnalano come il PD, il più importante partito della sinistra, prenda voti nei centri cittadini fra il cosiddetto ceto medio riflessivo e li perda nelle periferie fra gli “strati popolari”.

La grande reticenza e timidezza che si riscontra nell’usare questo termine deriva sia da un ostacolo definitorio (che cos’è il popolo oggi?), sia soprattutto da una difficoltà reale che costituisce il problema drammatico e insoluto delle attuali società democratiche: come rappresentare collettivamente, unitariamente, una moltitudine di individui isolati e atomizzati.

Certo, abbiamo libere elezioni degli organismi pubblici nazionali e locali, ma sappiamo bene quanto debole sia il legame tra rappresentanti e rappresentati e quanto poca sia l’influenza del voto del singolo cittadino (eliminazione del voto di preferenza, candidati che non si conoscono, deputati che cambiano linea e partito come se niente fosse, partiti privi di statuti democratici).

E’ bene prendere atto dei limiti dell’attuale democrazia, esito di cambiamenti che hanno scosso profondamente le strutture del sistema politico-sociale.

Se i partiti, ma anche i sindacati e le organizzazioni di massa, nascevano da forti identità collettive, questo oggi accade sempre meno, il consumismo dilagante e la ricerca del benessere come leitmotiv della vita sociale non hanno distrutto solo le ideologie, ma anche tanti valori e orizzonti significativi.

La globalizzazione poi ha dato una mazzata finale, invertendo sostanzialmente i piani, facendo dell’economia il fine e trasformando la politica in mezzo.

La situazione è arcinota e in questi anni sono state pubblicate montagne di analisi e di tesi sull’argomento della crisi politica e democratica, ma senza trovare risposte convincenti e condivise; situazione che fa il paio sul piano economico mondiale alla difficoltà di trovare una qualche politica alternativa al liberismo che domina indisturbato la scena da oltre 40 anni.

In questa situazione di vuoto trova libero corso il populismo, il cui vantaggio di partenza consiste nel fatto che si presenta come una ricetta dall’effetto immediato, nei confronti di chi ritiene invece che lo sfaldamento del vecchio sistema richieda tempi lunghi di ricostruzione.

Il populismo presenta tanti aspetti critici, che rendono poco plausibile la sua soluzione e che qui possiamo limitarci a richiamare:

  • Tende a risolvere il problema della complessità, annullando di fatto ogni problema che possa dividere
  • Ha bisogno di avversari come capri espiatori cui addossare colpe e responsabilità (lo Stato, gli immigrati, l’Europa)
  • Non riconosce il pluralismo (o si sta col popolo o si è contro), ciò che porta facilmente alla illiberalità
  • Per vivere ha bisogno di un leader, il più carismatico possibile e in ogni caso unico, perché deve rappresentare questa ricercata unità (con il rischio, direbbe Weber, della rinuncia alla propria anima da parte dei seguaci).

Sostanzialmente il populismo risolve il problema dell’unità della moltitudine attraverso delle scorciatoie e delle soluzioni tranchant che contrastano visibilmente con la comune prassi democratica.

Ma se il populismo non appare accettabile, altrettanto non appare tollerabile la situazione in cui siamo immersi: una democrazia prevalentemente procedurale, una politica dedita largamente alla gestione, una società concepita e trattata come un insieme di individui (ridotta a opinione pubblica), in sostanza una democrazia a basso livello di intensità, che funziona al minimo, ciò che va bene a molti, troppi.

Ci troviamo di fronte a una situazione dove si tratta da una parte di costruire rapporti con una miriade di individui isolati e dall’altra di delineare una visione politica di società e di valori rivolti a tutti: ci chiediamo a questo punto se la proposta del Papa, di prendere in considerazione l’idea di popolo, non possa costituire una possibile strumento valido per affrontare il problema.

Il popolo soggetto attivo del proprio destino

L’idea di popolo è certamente inerente alla nostra questione: contiene in sé un riferimento globale relativo all’insieme di un universo sociale (il “come rappresentare tutti”) e nello stesso tempo comprende ogni persona, anche degli strati sociali più marginali (a volte chiamati popolari).

Il valore simbolico del popolo era un tempo molto più rilevante e immediato; non aveva bisogno di spiegazioni e di interpretazioni trovando un riscontro diretto nella realtà: basterebbe rievocare i richiami al sentimento popolare nazionale nei tempi di guerra, le manifestazioni di massa del dopoguerra, gli appelli al popolo per sostenere la ricostruzione del paese, i grandi movimenti contadini e operai che tanta parte hanno avuto nella storia d’Italia.

Il popolo ha espresso ed esprime – anche se oggi in forma più attenuata – la storia e la cultura del paese, intendendo per cultura naturalmente non quella accademica, ma la mentalità diffusa, il modo di pensare, il sentire comune.

Per comprendere il popolo, il Papa sottolinea che va inteso non come un concetto razionale, ma piuttosto come una forma mitica-storica che richiede una interpretazione analogica volta a coglierlo nel suo insieme, proprio perché realtà complessa e in costante evoluzione.

Il popolo non è una realtà statica, ma dinamica, cambia si può dire continuamente e dunque il problema che si pone è se questo cambiamento è solo eterodiretto, vissuto in modo del tutto passivo, o se invece il popolo riesca ad esprimersi in quanto soggetto attivo.

In proposito è indubbia la posizione del Papa: il popolo è un soggetto attivo del proprio futuro, creatore della sua storia e della sua cultura.

Se allarghiamo poi la nostra visione a livello mondiale possiamo riscontrare un’analogia col pensiero di Paolo VI che, nella Populorum progressio, afferma: “la solidarietà mondiale deve consentire a tutti i popoli di divenire essi stessi gli artefici del proprio destino” (Populorum progressio, 65).

Questa concezione è ampiamente ripresa nella recente enciclica “Fratelli tutti”, in particolare quando viene criticata la tendenza alla limitazione e omologazione delle diverse culture. “C’è un modello di globalizzazione che mira consapevolmente a un’uniformità unidimensionale e cerca di eliminare tutte le differenze e le tradizioni in una superficiale ricerca di unità. Se una globalizzazione pretende di rendere tutti uguali, come se fosse una sfera, questa globalizzazione distrugge la peculiarità di ciascuna persona e di ciascun popolo” (Fratelli tutti, 100).

Del resto, che ci sia e che ci debba essere un ruolo attivo dei popoli lo si riscontra quando sono direttamente chiamati in causa i rapporti tra popoli confinanti.

Riporto a riguardo un’esperienza personale che mi è rimasta impressa e molto istruttiva in merito: alcuni anni fa sono stato a Gerusalemme con un gruppo della Diocesi di Milano e abbiamo potuto incontrare mons. Pizzaballa, Amministratore apostolico e Patriarca latino della città.

Nell’incontro, una domanda rivoltagli riguardava la possibilità di pace tra Israele e la Palestina. La risposta in sostanza diceva: voi continuate a pensare alla pace in termini di rapporti tra stati e governi, ma come potete pensare che si possa realizzare la pace sino a quando questi due popoli continueranno a odiarsi?

E possiamo porci lo stesso problema anche a casa nostra: abbiamo costruito l’Europa, ma ci sono ancora tanti pregiudizi, diffidenze, rancori: non si tratta forse del problema, che una volta si diceva per l’Italia, “abbiamo fatto l’Europa, ora facciamo gli europei”? Oppure, detto con altre parole, nel rispetto delle loro diversità, come fare degli europei un popolo?

Il punto di partenza sembra essere la presa d’atto che il popolo è una realtà sociale e culturale, in cui queste due dimensioni si trovano strettamente unite, in quanto la cultura di un popolo si esprime nella sua vita sociale.

Da qui nasce immediatamente una constatazione: un paese è tanto più democratico, quanto più intensa è la vita sociale popolare; una vita sociale ricca di rapporti, di manifestazioni, di iniziative, di fermenti culturali è ciò che dimostra la forza di un popolo, la vitalità e la maturità di un paese.

Per questo risulta fondamentale la partecipazione popolare a cui sono dedicate pagine tanto appassionate quanto cruciali dell’enciclica citata.

In essa si afferma che non sarà possibile uno sviluppo umano integrale se non superando “quell’idea delle politiche sociali concepite come una politica verso i poveri, ma non coi poveri, mai dai poveri e tanto meno inserita in un progetto che riunisca i popoli. E’ necessario pensare alla partecipazione sociale, politica ed economica con modalità che includano i movimenti popolari e animino le strutture locali, nazionali e internazionali col quel torrente di energia morale che nasce dal coinvolgimento degli esclusi nella costruzione del destino comune. Altrimenti la democrazia si atrofizza, diventa un nominalismo, una formalità, perché lascia fuori il popolo nella sua lotta quotidiana per la dignità, nella costruzione del suo destino” (Fratelli tutti, 169).

Non è superfluo richiamare che la partecipazione popolare parte soprattutto dal lavoro, perché rappresenta la normale espressione sociale della gente.

Quando il movimento operaio aveva un ruolo sociale e politico rilevante, parlare di popolo era facile perché popolo e operai erano un tutt’uno, si prendeva la parte più importante (la classe operaia) per l’intero; il declino del movimento ha portato a un parallelo offuscamento del popolo.

Attraverso l’esperienza quotidiana del lavoro anche oggi – in una realtà economica e tecnologica del tutto differente – il lavoratore può esprimere sé stesso, stabilire relazioni, prendere coscienza dei rapporti sociali, essere un soggetto pensante e costruttivo, sentire di essere utile e parte della società.

Non si può cambiare la società senza cambiare le persone (e viceversa); partire dalle prime esperienze delle persone, dal loro vivere quotidiano di lavoro e di quartiere, è metodo imprescindibile per stabilire/ristabilire rapporti sociali e popolari.

Ed è per il fatto di essere riconosciuto dagli altri, come persona ma anche per il proprio lavoro, che ognuno si sente parte di una comunità, di un popolo.

Ognuno è pienamente persona quando appartiene a un popolo, e al tempo stesso non c’è vero popolo senza rispetto per il volto di ogni persona” (Fratelli tutti, 182).

Si parla di popolo perché questa prospettiva riguarda tutti, in basso e in alto, tanto i poveri (soprattutto quelli a rischio di esclusione, di scarto) quanto coloro che stanno bene, per stabilire un dialogo che ricerchi ciò che unisce e come far crescere una coscienza comune: è un atteggiamento da tenere anche nei confronti degli avversari politici, perché questa coscienza comune si propone come universale, che per principio non esclude nessuno.

Può essere pertinente in proposito un richiamo storico all’esperienza sociale cattolica del nostro paese.

La famosa enciclica di Leone XIII “Rerum novarum”, con cui ha avuto solennemente inizio il movimento sociale cattolico, è un’enciclica giustamente lodata e apprezzata per i suoi molti meriti.

Ma non è fuori luogo anche rammentare quanto sia costata al Papa, in quanto pontefice universale, una scelta che costituiva un atto di divisione: si prendeva atto che non ci si rivolgeva più a tutto il popolo, ma solo a una sua parte, al “popolo cattolico”, da contrapporre alla ormai consolidata presenza di un “popolo laico-borghese” e di un “popolo socialista”.

Si costituivano ormai delle parti, dei partiti – necessità storica incontestabile – ma con la coscienza, non certamente tranquilla, di non rappresentare più il popolo intero.

Di recente ho avuto occasione di leggere un libro dedicato alla figura del card. Schuster, opera di quel bravissimo storico che era Giorgio Rumi e di mons. Angelo Majo.

Alla fine degli anni ’30, mentre si cercava di difendersi per quanto possibile dai soprusi fascisti, è sorprendente constatare come fosse viva nella chiesa milanese la preoccupazione dell’allontanamento avvenuto da parte della classe operaia, avvertito come una frattura all’interno del popolo.

Il giornale cattolico “L’Italia”, e non meno la vivace e gloriosa “Azione Giovanile”, riportavano all’epoca diversi interventi di giovani studiosi e sacerdoti destinati a diventare importanti – Fanfani, Taviani, Lazzati, don Mazzolari – dedicati a questo tema ritenuto vitale; l’articolo del direttore del giornale, Sante Maggi, poi estromesso dal fascismo, porta un titolo espressivo e nel contempo riassuntivo di quel pensiero: “Andare al popolo”.

Quando ero giovane ho avuto la fortuna di leggere i volumi che Franco Venturi ha dedicato al populismo russo, movimento che aveva appunto come motto e come fine “andare al popolo”: populismo vero, ideale ed eroico, che mi è sempre stato impresso come una pagina pura di dedizione politica.

Questo “andare al popolo” riguarda tutti, proprio tutti, ma in particolar modo gli intellettuali, perché una cosa di cui il popolo ha bisogno come il pane è la cultura.

L’intera attività umana avviene all’interno della cultura, dunque il popolo vi partecipa, ne prende parte, ma il dialogo tra gli strati popolari e il mondo della cultura in senso proprio si è troncato, perché l’albero di trasmissione, le organizzazioni di massa, è venuto meno.

Occorre trovare altre strade e mezzi che sono da ricercare e inventare; certamente non sono i “social” e le TV, che servono ad informare, ma ben poco a formare, e così oggi il popolo è privo di un contatto diretto con la cultura, ciò che gli consentirebbe di esprimere le proprie forze e capacità.

Concludendo, la proposta del popolo, avanzata da Papa Francesco, e che abbiamo qui richiamato, ci sembra presentare molti aspetti validi per interpretare la realtà attuale, da cui poi far scaturire un pensiero capace di affrontarla.

E ciò sicuramente chiama in causa anche la chiesa.

La missione del popolo cristiano

Il popolo umano è certamente una cosa diversa dal popolo cristiano, però nella realtà spesso si intrecciano tra loro, si mescolano, si sovrappongono.

Basterebbe pensare ai popoli che sono debitori debitori alla chiesa per la loro origine e la loro cultura.

E poi nel linguaggio comune non si usa a volte dire (anche se oggi con più parsimonia) che il popolo italiano è un popolo cristiano?

Del resto, l’origine di questo messaggio si trova sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento: l’oggetto dell’opera salvifica è sempre infatti il popolo nella sua totalità e il compito ricevuto dalla chiesa è quello di rivolgersi a tutti “Andate e fate discepoli tutti i popoli” (Matteo, 28).

Vi è come un legame stretto tra il popolo di Dio e il popolo umano, che porta a uno scambio reciproco costante: il popolo cristiano è portatore di uno spirito che rischiara la vita umana, il popolo porta alla comunità cristiana la ricchezza della propria vita quotidiana perché venga accolta in una prospettiva più profonda, più definitiva, quella spirituale.

Ma ora questo scambio sembra piuttosto interrotto o perlomeno non funziona nel modo migliore.

Sia il popolo umano che il popolo cristiano attraversano una fase di mutazione che richiede tempo per l’elaborazione e la sedimentazione.

Se guardiamo al popolo umano forse la sua maggiore sofferenza è stata la perdita di un orizzonte di speranza (il socialismo e il comunismo) in cui aveva fortemente creduto e che ha dominato la sua storia per oltre un secolo.

Questa prospettiva si è dissolta a livello di massa, popolare (non ha qui rilevanza che rimanga presente in piccoli gruppi) e così il popolo viene di fatto abbandonato ad una vita prevalentemente materiale senza orizzonti che lo spingano a guardare oltre.

La politica, ma si può dire la vita umana collettiva, quella di un popolo, ha bisogno di una “causa giustificatrice” (Weber) che al presente difetta.

Sapendo bene che si rischia in proposito di fare discorsi velleitari, rimane il fatto che l’esigenza prima che si pone, per chi ritiene che il popolo sia un soggetto cruciale per affrontare i problemi della nostra società, è quella di “articolare un progetto di società valido per tutti” (card. Bergoglio, Noi come cittadini, noi come popolo).

Problema immenso e per questo occorre evitare di puntare su risultati a breve, ma piuttosto operare per creare le condizioni favorevoli che lo rendano possibile: “C’è bisogno di una vera ermeneutica evangelica per capire meglio la vita, il mondo, gli uomini, non di una sintesi ma di un’atmosfera spirituale di ricerca e certezza, basata sulla verità di ragione e di fede” (Papa Francesco alla Gregoriana).

Alla costruzione di questa prospettiva, lavoro nuovo e imponente perché deve riguardare tutti, i cristiani devono e possono partecipare alla pari degli altri: oggi gli scontri ideologici sono ridotti, le ideologie sono disarmate, domina solo il liberismo, non tanto come pensiero, ma piuttosto attraverso i consumi, i messaggi commerciali, il miraggio del benessere.

Ciò significa che, deposte per così dire le armi, si creano le condizioni per un lavoro in comune tra diversi, finalizzato a costruire insieme il futuro di cui abbiamo bisogno.

I cattolici devono in proposito superare un ostacolo di principio e psicologico che tante volte li ha trattenuti: quello di trovarsi a operare in una società laica che pone loro il problema di come vivere la propria vita spirituale in strutture che spirituali non sono e che a volte mostrano un atteggiamento di rifiuto preventivo.

E’ necessario prendere atto che ormai le nostre società sono laiche e che pertanto ogni possibile piano di iniziativa deve aver origine da questo presupposto.

Non esistono all’orizzonte prospettive di realizzazione di cristianità sacrali e neppure secolari e la eventuale realizzazione di istituti cristiani in questo contesto può avere solo un carattere di eccezione; il grande compito storico dei cristiani oggi nel mondo consiste nell’animare le strutture laiche, portare uno spirito a un mondo che spesso ne è privo o indifferente.

Per far questo occorrono dei cristiani che abbiano una vita unica, intera, che pensino che la loro vita cristiana non consista solo nelle pratiche religiose, ma che investa integralmente la propria esistenza, dunque anche i rapporti sociali, il lavoro, la politica.

Un grave errore è considerare queste attività come dimensioni umane distinte e separate dalla vita spirituale, la cui funzione rimane così esterna, di richiamo, di limite, ma senza informare la sostanza del modo di vita.

In poche parole, occorrono vite evangeliche.

E questa vita evangelica deve essere una vita popolare perché già Sant’Agostino sosteneva che “l’opera evangelizzatrice è dovere fondamentale del Popolo di Dio” (Evangelii nuntiandi, 84).

Chiesa popolo di Dio significa, ritengo, una chiesa che non abbia al centro il parroco, come il factotum, il depositario del monopolio della salvezza, ma il popolo, un popolo che naturalmente deve essere formato alla responsabilità.

Non è certo in discussione la gerarchia, né il compito insostituibile spirituale e sacramentale del sacerdote; si tratta invece di considerare che il baricentro della chiesa debba piuttosto essere collocato nel popolo, anche perché lo stesso nome chiesa indica assemblea, comunità.

Ci si potrebbe lamentare a riguardo che la dottrina del Vaticano II, che definisce la chiesa popolo di Dio, abbia trovato scarsa attuazione, ma dobbiamo avere più fiducia nello Spirito Santo, il quale ha tempi e modalità di intervento diversi dai nostri e che non conosciamo.

In ogni caso è bene pensare al popolo cristiano presente nel popolo umano come una sua naturale forma di vita e di missione.

In questo modo, mentre il popolo di Dio “evangelizza”, il popolo umano offre un importante contributo alla vita della chiesa, la rivitalizza, la irrobustisce, perché fa sì che la comunità non si rinchiuda nelle sue mura e nei suoi sacramenti come in un rifugio, e vi apporta il dono della vita reale, la quale tutta intera deve essere ricompresa spiritualmente.

E’ inutile aggiungere che questo discorso richiede processi formativi di lunga lena, nuovi metodi e orientamenti, la disponibilità a confrontarsi, l’umiltà di apprendere dagli altri, uno sforzo costante di coscientizzazione, ma come sempre l’importante è avere chiara la meta e poi “mettersi in cammino, con il popolo”.

Giugno 2021

Sandro Antoniazzi

 

Articolo di prossima pubblicazione sulla rivista “Appunti di cultura e politica