Tempo di lavoro e tempo al lavoro

Hélène L’Heuillet – Frédéric Worms

Pubblichiamo un interessante studio sul tempo di lavoro prodotto dal Sindacato francese CFDT.

Lo studio è diviso in due parti; questa è la prima parte.

 

Il rapporto del tempo col lavoro sembra essersi oggi modificato e occorre comprendere in questo non solo il tempo di lavoro e la sua misura, ma il modo con cui invade il tempo al lavoro, cioè il rapporto al tempo nel lavoro e questo secondo quattro assi principali:

  • Intensificazione e accelerazione dei compiti

  • Moltiplicazione delle richieste

  • Reificazione del rapporto personale col tempo

  • Strategia del vuoto.

Intensificazione e accelerazione.

E’ nel mondo del lavoro che questi fenomeni sociali ormai generali, che sono l’intensificazione e l’accelerazione, sono maggiormente percepibili ed espressi. L’intensificazione indica la soppressione degli intervalli fra i compiti e fra le parti dei compiti.

Il perseguimento della redditività del tempo ha spinto la nuova generazione del management a dare la caccia allo “spreco” di tempo e a eliminare i tempi definiti “morti”. Il risultato è molto spesso l’assenza di pause nella giornata, anche per mangiare. Lo sviluppo del telelavoro durante la crisi sanitaria, che imperversa dal 2020, ha generalizzato l’intensificazione, perché numerosi manager hanno temuto che il personale in telelavoro approfittasse della distanza per non lavorare sufficientemente.

L’accelerazione indica il fatto di andare sempre più veloci. Essa procede dalla stessa logica della redditività del tempo e crea una fatica specifica, quella del sentimento di una saturazione del tempo.

Anche se all’inizio accelerazione e intensificazione possono essere dissociate (si può avere un ritmo intenso, ma lavorare a un proprio ritmo), nei fatti, i due processi si alimentano l’uno con l’altro, perché fare più cose nello stesso segmento temporale conduce fatalmente ad accelerare la cadenza. La conseguenza consiste nel sentimento costante di “insufficienza”, di non dedicare a ogni compito il tempo che richiederebbe. Si può andare più lontano e dire che questa intensificazione e questa alienazione consistono in questo sentimento.

Rispondere a questo significa creare un quadro dove una persona non sia più ossessionata dal rapporto esterno col tempo, ma capace di occupare il tempo richiesto dal lavoro stesso come esperienza. Questo non significa certamente negare la necessità di un quadro e di misure regolatrici del tempo, ma piuttosto, giustamente, definire questo quadro, i suoi limiti e la sua chiarezza, come una questione essenziale per consentire un’esperienza concreta del tempo.

Moltiplicazione delle richieste.

Ora, l’intensificazione e l’accelerazione non sono possibili che per una moltiplicazione delle richieste, che destabilizzano costantemente il quadro. La questione del tempo si congiunge qui ad un altro fenomeno, che supera questa nota: l’indebolimento della fiducia relazionale e istituzionale che è fondamentale per articolare i due rapporti complementari al tempo che definiscono le nostre vite e le nostre azioni.

Si è visto dappertutto il moltiplicarsi dei protocolli e le consegne diventare nel contempo più mutevoli e dettagliate. Là dove l’autonomia era la regola o piuttosto era l’effetto della regola e del quadro, ciò che essi tendevano a permettere, le direttive ora diventano invadenti e intrusive. Ciò ha per conseguenza il sentimento di un “bullismo” temporale. Non si può lavorare se non alla condizione di situarsi, grazie a un quadro chiaro, in un tempo soggettivo che ci lasci la possibilità di aggiustare il tempo di cui la cosa ha bisogno per essere effettuata.

La moltiplicazione delle richieste priva di questa possibilità di aggiustamento. Persino in lavori intellettuali e di ricerca l’aggiunta incessante di piccoli compiti amministrativi disturba i tempi lunghi necessari alla riflessione. Ogni compito di per sé è breve, ma il cumulo crea un effetto di saturazione. La saturazione temporale proviene da quella dell’attenzione che deve in permanenza fissarsi su nuovi oggetti. La conseguenza è un fenomeno di dispersione che emerge coscientemente in un’altra dimensione della “sofferenza temporale”, che costituisce così un indice di tutte le altre.

Reificazione o soggettività.

Il rapporto col tempo rivela in realtà due forme di soggettività. Da una parte un soggetto investe nel tempo l’intera sua attività e molto concretamente il suo proprio corpo. Ma d’altra parte un soggetto, di cui si misura il tempo dall’esterno e il cui corpo è visto pure dall’esterno, può essere ridotto a una macchina. Questa meccanizzazione del corpo umano agganciato a un orologio, che si ritrova bene espressa nelle immagini celebri di Buster Keaton di Charlot in Tempi moderni, resta profondamente vera.

Non si tratta di negare questi due rapporti col tempo, ma di rimarcare il pericolo che uno dei due possa trasformare e persino distruggere l’altro, che è essenziale, non solamente per la vita cosiddetta personale, ma anche per il lavoro e la vita sociale. Ora questo rischio, che si potrebbe definire di reificazione (cosificazione), cioè di trasformazione della soggettività in una cosa manipolata dall’esterno, non cessa di ripresentarsi oggi.

Uno dei segni risiede in un vocabolario che assimila la soggettività alla macchina. Poiché il modello dell’intelligenza è ormai quello dell’intelligenza artificiale, anche il rapporto col tempo è reificato. Le risorse temporali ancora inesplorate di un lavoratore sono a volte qualificate come “larghezza di banda disponibile”; si parla dei soggetti come dei “cervelli” che devono eventualmente cambiare di “software” per offrire la “versione migliore” di loro stessi.

In questa operazione, è il corpo che scompare. Il corpo soffre l’intensificazione e l’accelerazione perché ha dei limiti che non sono quelli della macchina. Ma quando il corpo non può essere anch’esso al lavoro, quando l’intelligenza richiesta al lavoratore, anche manovale, è quella della macchina, la conseguenza è una difficoltà a riconoscersi in quello che si fa. Al contrario il segno di un quadro di lavoro giusto sarà il riconoscimento dei diversi rapporti col tempo, ivi compreso il tempo del corpo.

Strategia del vuoto.

Infine, c’è un paradosso nel fatto che, a fianco dell’intensificazione, un’altra sofferenza temporale risiede in un “vuoto” che non è un oblìo felice del tempo per rituffarsi e ritrovare la propria vita, ma al contrario un’ossessione nuova del tempo, sotto forma di un tempo vuoto e strutturato come tale, divenuto ossessivo. Per coloro che non possono seguire la cadenza e mancano della “reattività”, una strana e crudele punizione è stata trovata: essere messi nel “ripostiglio”(in un angolo). Non avere più niente da fare è la minaccia implicita rivolta a coloro che si lamentano di avere troppo da fare. Alla mancanza di tempo si risponde con troppo tempo, quello stesso che si chiama “noia” e che conduce alla vacuità il soggetto che vi è destinato.

Le conseguenze sulla vita personale del soggetto sono considerevoli. Trovarsi in un “angolo” nel lavoro porta a vivere la propria vita in un “angolo”. La noia addormenta la facoltà di desiderare. Questa strategia del vuoto rinvia più in generale alla questione della precarietà. Meglio avere troppo lavoro che non averne per niente, è ormai l’adagio comune.

Ma questo ragionamento di sostanza sulla precarietà spiega la precarizzazione del rapporto col tempo nel lavoro. Poiché il lavoro è raro, quando si ha la possibilità di averne uno, ci si deve dedicare corpo e anima sino all’esaurimento. La constatazione di una saturazione temporale nel lavoro odierno è inquietante per il senso e il desiderio di lavoro.

Il desiderio richiede tempo e si installa in una temporalità. Un tempo saturato è un tempo che spegne il desiderio di lavoro e priva i soggetti di capacità di autonomia, la cui fonte risiede nel desiderio di lavoro.