Il contributo dei cattolici alla Resistenza e alla Ricostruzione democratica

Pierluigi Castagnetti

Testo rivisto dall’Autore della lectio magistralis tenuta l’11 settembre 2021 per la quarta edizione della «Lettura estiva Ermanno Gorrieri sulla Resistenza».

Rocca di Montefiorino

 

Sono grato alla Fondazione Ermanno Gorrieri di avermi invitato, sia per il mio legame personale con Ermanno, che per il mio interesse per il tema di questa sera. Certo che, se dovessi rispondere alla domanda di Giuseppe Boschini, dovrei fare un altro discorso. L’immagine di Campanini, infatti, “i cattolici in politica sono ovunque e da nessuna parte”, è molto suggestiva e difficile da contestare. Occorre però contestualizzare e storicizzare il discorso sulle modalità di partecipare alla vita politica nell’ultimo secolo, da parte dei cattolici e dei non cattolici: quando cambia l’epoca come dice il Papa, nessuno può chiamarsi fuori dai cambiamenti della storia in cui si è immersi.

Voglio però dirti, inoltre, caro Giuseppe, i miei auguri più solidali per il lavoro che ti attende alla guida di questa magnifica Fondazione, mentre anch’io mi associo al ricordo grato e affettuoso di Luciano Guerzoni, che tanto ha dato per la sua valorizzazione, riuscendo sicuramente nell’intento.

Voglio aggiungere preliminarmente ancora un apprezzamento particolare sull’iniziativa di queste lectio attorno ai temi della Resistenza che spero vogliate continuare anche negli anni prossimi. Perché è la prima volta, nella storia della Repubblica, che la maggioranza del Parlamento è fatta da deputati e senatori che, anche solo per ragioni storiche oggettive, non hanno riferimenti o non riconoscono le loro origini in movimenti politici che abbiano avuto ruoli nella nascita della Repubblica e, dunque, nel processo storico che ha portato alla stesura della nostra Carta Costituzionale

Questo ha delle conseguenze nel dibattito pubblico. Già oggi si dice, e sentiremo ancor più ripetere in futuro, che la Resistenza è un “fatto storico”, che è una verità, ma l’intenzione di chi fa queste affermazioni è quella di volerla relegare in una teca del museo della storia, e non riconoscerla come un fatto politico il cui “focus” continua a generare passioni e ispirazioni preziose anche nel tempo presente.

Emblematico del legame Resistenza Costituzione il discorso di Giuseppe Dossetti in Assemblea costituente il 21 marzo 1947, in occasione del dibattito sull’inserzione dei Patti Lateranensi nel testo costituzionale, nel quale, descrivendo un duro combattimento sull’Appenino reggiano durante la Pasqua del 1945, ricordò come:

“Proprio una delle ultime fucilate aveva colpito Elio, il nostro vice comandante di Brigata. […] Era ferito mortalmente, ma ancora non se ne rendeva conto e sperava nell’intervento chirurgico di un nostro amico; ma l’amico, oggi qui tra noi, non poté che annunziarci che la morte era ormai imminente. E allora qualcuno dovette assumersi il compito di far sì che quel sacrificio, iniziato con tanta generosità, conoscesse anche la suprema generosità: quella di consumarsi consapevolmente. Credetti così di dovergli dire che la vita era ormai finita per lui e di dovergli chiedere che egli consapevolmente la offrisse per noi: perché tutti diventassimo più buoni, più fedeli alla bandiera che servivamo, più disposti a immolarci come lui per il rinnovamento d’Italia. Bastarono poche parole perché egli comprendesse ed assentisse, e con gli ultimi esili sforzi della voce confermasse ciò che gli avevo chiesto. E noi presenti giurammo allora, di fronte a un sacrificio così grande e così consapevole, che avremmo sempre sentito e osservato l’impegno che esso importava per noi. Questo è l’impegno, con il quale oggi vi parlo. Esso dice a voi tutti: a voi, venerandi maestri e seguaci di un’idea l’idea liberale che voi sentite ancora pulsare nel vostro cuore ma che, a un tempo, sentite doversi aprire e integrare in idee nuove; dice a voi, più giovani che avete conosciuto e superato le ultime battaglie nell’anelito rinnovatore della giustizia; dice a tutti che dobbiamo avvertire la pressura e il gemito del nuovo mondo che sta sorgendo e che dobbiamo inchinarci su questo mondo nuovo, con religioso rispetto, perché in nulla venga menomato e tradito il messaggio e il compito che i nostri morti ci hanno lasciato”¹.

Nella Resistenza c’è un sostrato culturale profondo, c’è quella cultura che consentì a chi salì in montagna sul finire della Seconda guerra mondiale, di farlo non per un impulso giovanile avventato, ma perché spinto dalla fede profonda nei valori della centralità della persona umana. Mosso dalla sua aspettativa a vedere riconosciuti i propri diritti di cittadinanza, dal valore dell’indipendenza oltreché del prestigio storico e morale della propria patria che nessuna potenza straniera può calpestare, oltretutto nei valori irrinunciabili della libertà, della giustizia, della democrazia.

Come vedete, tutti temi che nessun tempo può usurare. Valevano ieri come valgono oggi. Ricordare, dunque, ogni anno il nome di Ermanno Gorrieri associato al valore della Resistenza è un fatto importantissimo, perché, se non lo facciamo noi democratici, se non lo fanno istituzioni come la Fondazione Gorrieri o la Fondazione Fossoli che presiedo, non sarà fatto da nessuno altro. Purtroppo, anche le forze politiche, perfino quelle progressiste, finiscono per ritenere, in assoluta buona fede, che parlare di queste cose significhi parlare del passato, un passato glorioso ma pur sempre passato, che poco ha a che fare con i problemi della contemporaneità. “Il discorso sulla Resistenza – sostiene qualcuno – è un discorso divisivo”. Non è vero, non può essere vero. Se il passato racconta della libertà e della democrazia conquistate per “tutto” il popolo, non può essere divisivo. Nessuno vuole riportare il dixbattito a quei tempi, ovviamente, ma da quei tempi occorre estrarre le ragioni che in democrazia tutti oggi dovremmo condividere.

Sul valore del passato in relazione al presente, penso a quanto scriveva Marc Bloch, il grande storico francese, cioè che: “L’incomprensione del presente nasce inevitabilmente dall’ignoranza del passato. Ma non è forse meno vano affaticarsi nel comprendere il passato, se non si sa niente del presente”².

Per tale motivo ritengo molto utile l’iniziativa delle lectio gorrieriane sulla Resistenza.

 

1. 11 settembre

Voglio poi aggiungere un pensiero (prima di trattare il tema assegnatomi) sulla coincidenza tra questa nostra manifestazione e l’anniversario dell’attentato alle Torri Gemelle. Perché quel drammatico atto terroristico di vent’anni fa, in una qualche misura, ha a che fare con quello specifico quadrante mediorientale che dalla fine della Seconda guerra mondiale, ne siamo consapevoli o meno, continua a orientare le grandi direttrici della politica internazionale. Gli accordi di Yalta (località in cui i vincitori si sono spartiti il mondo), infatti, assieme all’invenzione della bomba atomica, hanno oggettivamente segnato il futuro, cioè la nostra stagione. Il “mondo” a quel tempo era rappresentato dall’America e dall’Europa fino agli Urali. Tutto il resto del pianeta era fuori dall’interesse dei vincitori. Si è dato vita quindi a una spartizione delle aree di influenza e a una organizzazione delle Nazioni Unite che corrispondesse a questa idea di mondo.

Purtroppo per lunghi decenni non c’è stata la preoccupazione di recuperare la consapevolezza che il mondo era più largo di come lo avevano pensato e fotografato gli Alleati a Yalta.

Mi riferisco in particolare all’incapacità dell’Occidente, tutto, di definire una strategia di relazione con il variegato mondo dell’islam. Quello che è successo in Afghanistan solo dieci giorni fa e quello che è successo qualche decennio prima in Iraq e poi in Siria e in Libano lo dimostra. Fra quanti avevano capito che il mondo è più largo e che, o lo si rispetta o si imporrà alla nostra considerazione, c’erano appunto, in Italia due leader assai diversi, partigiani dall’orizzonte largo: Enrico Mattei e Giuseppe Dossetti. I quali, per la verità, riuscirono a convincere altri giovani dirigenti del loro partito, come Amintore Fanfani, Aldo Moro e Giorgio La Pira. L’attentato alle Torri Gemelle a New York nel 2001 non poté non evocare in alcuni di noi il drammatico presagio espresso proprio da Dossetti dieci anni prima, al tempo della Guerra del Golfo.

L’attacco americano a Saddam Hussein avrebbe, tra l’altro, riattivato – secondo il monaco di Monte Sole il mai sopito ricordo delle crociate: “Ma questo ricordo – scrisse su “Il Regno” suscita anche nella totalità dei musulmani la bellissima ed eccitante speranza che il trionfo degli occidentali sia effimero, come è stato effimero quello dei crociati”³. E a me personalmente aggiunse: “Quei popoli hanno memoria da elefanti. Non so se fra cinque, dieci, o quindici anni, ma aspettiamoci una clamorosa vendetta”.

Con ciò non voglio ragionare in astratti termini deterministici o giustificare in alcun modo i terroristi, né la loro disumana violenza, sia chiaro. Ma penso che politici lungimiranti debbano conoscere il mondo, i popoli, le loro psicologie collettive e storiche.

Questo mondo perché torni ad essere vivibile ha bisogno di ricostruire forme nuove di legamenti fra popoli e nazioni, nuove forme strutturate di collaborazione sovranazionale sul modello dell’Unione Europea, nuovi modelli di multilateralismo, nuove opportunità di distribuzione delle ricchezze energetiche e finanziarie. Ha bisogno, insomma, di nuove leadership autorevoli e visionarie.

Bisogna tornare alle strategie di collaborazioni internazionali e di pace che erano nella testa dei partigiani, e persino nei deportati nei campi di concentramento (abbiamo al riguardo delle testimonianze ammirevoli e commoventi dei discorsi che si facevano fra deportati, anche nelle baracche di Fossoli), altrimenti non avrebbe avuto senso andare a combattere in montagna per un mondo diverso, se diverso non siamo in grado di farlo.

 

2. Cos’è stata la Resistenza per i cattolici?

Venendo più propriamente al tema, secondo me basterebbe che noi riflettessimo sulle cose che ci ha detto Giulia Bondi e che ha scritto nel libro⁴. Cos’è stata la Resistenza per i cattolici.

Chi li ha mossi alla Resistenza? Cos’era ciò che li univa e ciò che li distingueva dagli altri partigiani? Quale fu l’intelligenza strategica che li portò in montagna mentre altri come i comunisti preferivano in un primo momento, e in particolare qui nella provincia di Modena, come teatro di combattimento le città? In Ermanno Gorrieri e negli altri suoi compagni la scelta della montagna rispondeva all’obiettivo di non fare della Resistenza al nazismo e al fascismo un evento di pochi, seppur ardimentosi ed eroici, come erano sicuramente i protagonisti di una strategia “sappista”, ma un evento di popolo, di coinvolgimento popolare, di quelle che allora venivano indicate come le masse.

Il problema che i cattolici si ponevano rispetto alla Resistenza era essenzialmente far sì che non fosse un movimento elitario. Un movimento, cioè, di alcuni volenterosi e di alcune avanguardie. Al contrario si doveva puntare progressivamente a una vera e propria insurrezione di popolo.

La lotta partigiana in città non consentiva ciò, non c’erano i mezzi di comunicazione che conosciamo oggi, non c’era la possibilità di un coinvolgimento, di una mobilitazione ampia. La città era terreno di chi governava, i fascisti. Bisognava andare in periferia per poter recuperare spazio d’azione. Abbiamo visto com’è nata la Repubblica di Montefiorino, quasi per caso, senza volerlo. Ad un certo punto, come ci ha ben descritto Giulia Bondi, i partigiani si sono accorti che alcuni comuni contigui del modenese e del reggiano avevano deciso di autogovernarsi. Bastava metterli assieme, e dar vita a uno spazio di democrazia, una prima isola di democrazia e libertà, una vera e propria repubblica.

Insomma, i cattolici che entravano nella Resistenza (l’esempio modenese è significativo), soldati un po’ improvvisati, cioè senza addestramento come racconta Ermanno Gorrieri, mostrarono però sin da subito una particolare intelligenza politica, cioè una conoscenza dei territori e degli stati d’animo delle popolazioni, particolarmente preziosi.

Non è a caso che a presiedere i CLN di Modena e di Reggio fossero stati scelti due cattolici, come l’avv. Coppi e il prof. Dossetti, nonostante fossero espressione di una posizione politica minoritaria, per raggiungere più facilmente quell’obiettivo. Sicuramente ha giocato la scelta dei comunisti di tenere per sé il comando militare, ma c’era anche il riconoscimento ai cattolici di una particolare intelligenza politica. La politica non era e non è una cosa semplice, non è solo lotta, non è solo sabotaggio, non è solo azione. È anche disciplina, non è anarchia, non è ribellismo a ogni regola, men che meno un individualismo nell’azione militare. Le azioni militari si devono fare insieme e si deve condividerne il senso. Il problema dell’indisciplina fra le file dei partigiani comunisti era infatti un problema molto serio, che la direzione politica del loro stesso partito ha dovuto affrontare in più occasioni. Non dimentichiamo che anche in certi fatti drammatici del dopoguerra emiliano c’è il segno dell’anarchismo e del radicalismo rivoluzionario che caratterizzò una parte, pur largamente minoritaria e anche isolata, dei partigiani comunisti, al punto che lo stesso Togliatti dovette intervenire personalmente a Reggio Emilia, dove convocò i sindaci di Bologna, Modena e Reggio Emilia, Dozza, Corassori e Campioli, per vedere come bloccare il fenomeno delle minoranze anarcorivoluzionarie.

Non va mai dimenticata l’origine di tutto ciò. Nel 1921 – quest’anno celebriamo il centenario – la scissione del Psi a Livorno ha determinato la nascita di un partito rivoluzionario, rimesso in discussione solo nel 1944 con la “svolta di Salerno”, quando Togliatti delineò i connotati di un partito più riformista che rivoluzionario ma, soprattutto, “educato” alla prospettiva di una democrazia vera, che avrebbe dovuto prendere il posto del fascismo sconfitto. Così come non va dimenticato l’enorme prezzo di sangue e di detenzione carceraria pagato dai militanti comunisti, i maggiori e spesso i pochi e persino i soli, a combattere frontalmente il fascismo durante il ventennio, che aveva indubbiamente molto indurito lo stato d’animo di quelli che saranno poi i resistenti comunisti.

Diversa invece la storia dei cattolici, anche dell’antifascismo minoritario tra i cattolici, raramente e apertamente militante, anche se non pochi tra i loro capi avevano subito carcere, martirio ed esilio. Non si dimentichi che anche in provincia di Modena la prima vittima dello squadrismo fascista è stato il giovane lavoratore (birocciaio) Agostino Baraldini, della gioventù cattolica di Mortizzuolo, nel 1921. Ma in genere la disponibilità dei cattolici alla lotta partigiana non fu tempestiva e, comunque, condizionata dall’atteggiamento incerto e quantomeno ambiguo per lunghi anni della chiesa italiana.

Il Partito popolare di Sturzo era stato certamente antifascista. Così come molti suoi esponenti. Pensate a Modena: abbiamo parlato dell’avvocato Coppi e farò un cenno, inevitabilmente solo un cenno, a Francesco Luigi Ferrari. La Chiesa non aveva assunto un atteggiamento di netta opposizione al fascismo. Il fascismo governava e, come spesso è capitato nella storia, la Chiesa cercava momenti di intesa con chi comandava, per difendere i propri spazi di libertà religiosa. La Chiesa era conservatrice. Capiva che il fascismo era violento, metteva in discussione la libertà e tutti i diritti dei cittadini, ma impediva che i rivoluzionari comunisti ancora più spietati sul piano della libertà religiosa arrivassero al governo. I giovani cattolici che frequentavano le parrocchie vivevano questo clima, finivano per educarsi e per essere educati a un certo culto della patria. Anche Ermanno Gorrieri lo evidenzierà parlando della sua esperienza parrocchiale e dell’attività nella Fuci. Il patriottismo cattolico non era nazionalismo e non era acquiescenza al fascismo (parlo del patriottismo dei giovani della Fuci, dell’Azione Cattolica), era un amore della patria coltivato come una sorta di mito. Su questi temi si svilupperà, man mano cresceva una certa consapevolezza politica soprattutto tra i giovani, una sorda e progressiva tensione fra mondo cattolico e regime:

“Il mito della ‘nazione cattolica’ fu il campo in cui si consumò ha scritto Alessandro Santagata, nipote del prof. Ciro, compagno d’armi e di esperienze politiche di Ermanno Gorrieri e Luigi Paganelli, in un bellissimo libro appena uscito la partita principale con il fascismo, che si proponeva come una nuova «religione politica». La posta in gioco era l’immaginario degli italiani, e in particolare l’educazione delle nuove generazioni”⁵.

C’era qualche parroco che spiegava ai cattolici, soprattutto ai segmenti più giovani, che la posizione della Chiesa non era sbagliata perché pensava che penetrando il movimento fascista sarebbe riuscita e cattolicizzarlo.

L’obiettivo della “cattolicizzazione” del fascismo costrinse all’ esilio, oltre a Sturzo, Donati, Ferrari, Miglioli, Stragliati, Cocchi, Petrone, Russo e diversi altri tra i maggiori dirigenti del movimento cattolico.

Il libro, promosso dal Centro culturale Ferrari, che raccoglie le lettere di Francesco Luigi Ferrari alla moglie⁶ bellissimo dal punto di vista documentario di quel periodo ci dice che la sua casa a Parigi era diventata il luogo di ritrovo di tutti i fuoriusciti, compresi i comunisti. A testimoniare che c’è stata anche una presenza decisamente importante dei cattolici in quel periodo anche all’estero.

Non si dimentichi, inoltre, che, siccome Ferrari prima di arrivare a Parigi era stato a Bruxelles e a Lovanio, dove prese una seconda laurea, scrive quella che ancora oggi è considerata l’interpretazione politica più intelligente ed acuta del movimento fascista (Il regime fascista italiano). Scriveva Ferrari, in questo testo del 1928, che il nazionalismo fascista, nella sua negatività assoluta, aveva paradossalmente insegnato al popolo italiano il valore della libertà:

“Ha insegnato che la libertà, nelle mani di un popolo che non si eserciti a usarne saggiamente, porta all’anarchia e l’anarchia alla servitù. Ha costretto un popolo, che nella vita moderna era entrato con la ingenua confidenza di un adolescente, a farsi uomo, a meditare, a soffrire, a tendere con tutte le sue forze verso un ideale. Non penso che la crisi rivoluzionaria, che si è aperta nel maggio 1915, quando per la prima volta le forze irresponsabili della piazza s’imposero agli organi responsabili dello stato, troverà in breve tempo una soluzione. Ritengo, anzi, che essa sarà lunga e dolorosa. Ma sono certo che alla fine il popolo italiano, grazie alle sue inesauribili energie spirituali, saprà superare questo oscuro periodo della sua vita e ritrovare il proprio equilibrio, dopo aver imparato a soffrire, dopo aver appreso che si devono seguire i migliori e non si deve servire nessuno, dopo avere sperimentato che, per possedere la libertà, bisogna diventare degni di questo tesoro incomparabile”⁷.

Cito volentieri Francesco Luigi Ferrari perché è un modenese di alto profilo politico, vicesegretario nazionale del PPI e l’amico che Sturzo considerava assolutamente indispensabile per la sua vita politica. Dialogando con Gabriele De Rosa dirà infatti di Ferrari: “Lo stimavo moltissimo. Sarebbe stato un ottimo Presidente del Consiglio in questo dopoguerra”⁸.

 

3. Perché allora i cattolici non decollavano nell’impegno antifascista?

Alle spalle del mondo cattolico c’era, dunque, questa Chiesa e questo clima che dura fino al primo dei tre radiomessaggi natalizi di Pio XII, 1942-1943-1944.

Nel radiomessaggio del 1942, Pio XII disse:

“Non lamento, ma azione è il precetto dell’ora; non lamento su ciò che è o che fu, ma ricostruzione di ciò che sorgerà e deve sorgere a bene della società”⁹.

Questo messaggio fu finalmente inteso dai giovani come la necessità di decidersi, schierarsi e assumersi delle responsabilità.

Potrei aggiungere altri documenti e testimonianze sull’antifascismo dei cattolici modenesi. Per rendere onore ai meriti del Centro Ferrari, ricorderò solo una bella pubblicazione, intitolata Gli scomodi¹⁰, fatta da Luigi Giorgi, in cui è stato esaminato il Casellario politico del regime fascista. Ci sono cose interessantissime su chi era controllato a Modena e che veniva considerato pericoloso. Venivano considerati tali i preti, e li si elencano, e i laici ex popolari, per la loro capacità di influenzare la cittadinanza. Un ruolo importantissimo, dunque. Meno pericolosi, da un certo punto di vista, dei comunisti, perché operavano in un territorio che era segnato da una forte e radicata presenza del movimento socialista. Questi esponenti, sia laici che sacerdoti, invece avevano l’autorevolezza, che gli veniva riconosciuta dalla popolazione, di essere cattolici. E dunque quando parlavano erano ascoltati, erano considerate persone perbene e continuavano a fare propaganda, anche se non diretta, mostrando una sostanziale alterità rispetto al regime, svolgendo il loro lavoro, distaccandosi dalla vita pubblica perché in disaccordo con quanto accadeva, custodendo con la loro posizione il seme della democrazia e della libertà proprio dell’esperienza sturziana e popolare, nonché di alcuni strati della stessa Chiesa. Ha scritto Renato Moro che:

“Non dobbiamo, del resto, compiere l’errore, considerato che le pretese dei regimi totalitari erano, appunto, totali e assolute, di pensare che l’opposizione a essi dovesse essere, allo stesso modo, totale e assoluta […] L’opposizione poteva nascere da questioni specifiche, quando le pretese ideologiche totalitarie minacciavano valori tradizionali o istituzioni consolidate. Fosse disobbedienza passiva, protesta cronica, sfida aperta, o semplicemente apatia depoliticizzata, il dissenso spesso convisse con molti elementi di consenso e raramente andò al di là di condanne specifiche per mettere in discussione la legittimità del sistema nel suo insieme”¹¹.

Queste sono alcune delle ragioni per cui ritarda l’impegno nella Resistenza dei cattolici. Ma fortunatamente ci sono anche eccezioni, giovani cioè che non sopportano titubanze e inerzia.

Fra loro non può non essere ricordato Gioacchino Malavasi, giovane di Concordia che va a Milano per laurearsi alla Cattolica, frequenta l’Azione cattolica di Milano e incontra Piero Malvestiti, leader naturale dell’Azione cattolica giovanile. Dal momento che la Chiesa è silenziosa, i cattolici sono titubanti e non c’è niente che li mobiliti all’impegno antifascista, fondano, insieme, un loro movimento: il Movimento Neo Guelfo, che ha come scopo proprio quello di catechizzare all’impegno politico antifascista. Siamo nel 1928. Nel 1931 faranno un volantinaggio su scala nazionale, un milione di copie, dove spiegheranno le ragioni di una mobilitazione chiaramente ed esclusivamente antifascista. Ecco perché, nel contesto di quegli anni, Malavasi deve essere ricordato, proprio perché ha coperto il vuoto politico che, finito il Partito popolare, si era determinato nell’area del mondo cattolico. Una grande figura.

 

4. Il ruolo prudente della Chiesa

Il ruolo prudente della Chiesa in quel periodo si manifesta anche attraverso quella che viene dichiarata “equidistanza”, come se fosse possibile di fronte al fascismo dichiararsi equidistanti. Ciò che guida infatti la Chiesa di quel tempo di fronte al regime è sostanzialmente un pensiero diplomatico e, in questo senso, la Nunziatura in Italia ha avuto un ruolo fondamentale.

Interessanti, ed emblematiche di un milieu cultural-politico quasi generale nel mondo cattolico, le confidenze del Cardinal Gasparri ad un diplomatico francese prima della guerra:

“Questo secolo ha l’aria di esigere dal papato di oggi precisamente ciò che rimprovera al papato di ieri. Vorrebbe, così sembra, che il pontefice attuale si buttasse nel mezzo dei popoli in armi, lampi alla mano, non risparmiando nessuno […] Questo potrebbe essere una buona idea ma noi siamo più moderni, e sappiamo quello che ci aspetta in seguito. Ciò comporterebbe non essere più in pace con nessuno […] Poiché andare decisamente fino in fondo al sistema, dovremmo condannare a turno, con gran chiasso, tutti i popoli, tutte le classi sociali, e tutte le categorie di peccatori”¹².

Se un ruolo ebbe la diplomazia vaticana, uno altrettanto importante fu rivestito dalla “Civiltà cattolica”, la rivista dei gesuiti, guidata da Tacchi Venturi. Un direttore con espliciti rapporti con il regime, che gli prometteva cappellani nell’esercito, suore negli ospedali, crocefissi nelle aule, in cambio di un atteggiamento benevolo. Quella che, negli studi di De Felice, viene definita la “politica chiesastica” del regime fascista: in cambio del silenzio della Chiesa il regime era disposto a elargire favori.

Nel 1929 viene firmato il Concordato. Possiamo immaginare lo stato d’animo dei popolari fuoriusciti (c’è una testimonianza molto forte di Francesco Luigi Ferrari), o dei popolari clandestini in Italia. Voglio ricordare, su questo aspetto, la testimonianza dolente ma piena di responsabilità e prospettiva storico-politica di Alcide De Gasperi. Il quale scrivendo al suo amico trentino Don Simone Weber, il 12 febbraio del 1929, rifletteva:

“l’influenza mi costringe ancora in camera e così vedo dalla finestra la fiumana di cattolici e italiani che torna da S. Pietro. Anche nella miserabile realtà quotidiana è come nella realtà dei simboli. I cocchi dei trionfatori passano, schizzando fango sui travolti, che stentano a salvarsi sugli angoli della via […] La S. Sede raggiunge veramente la sua libertà giuridica e diplomatica né è più soggetta alla tentazione di sacrificare questa o quella posizione alla speranza “romana”. Ciò vale anche per l’Italia, ove l’ultima posizione sacrificata fu quella dei cattolico–popolari. Coraggio, ho detto al mio amico, abbiamo almeno la consolazione di essere gli ultimi sacrificati. In verità a noi la libertà arriva quando non ne possiamo usare, e siamo dichiarati maggiorenni quando ci hanno portato via il patrimonio; ed è certo che nascere disgraziati è una disgrazia: ma come figli della Chiesa dobbiamo gioire. Certo ne guadagna il regime, si rinforza cioè la dittatura che dovrebbe pur essere un sistema transitorio, ma questa considerazione non poteva essere decisiva né per la conclusione né a noi per giudicare. Il pericolo è piuttosto la politica concordataria, ne verrà una compromissione della Chiesa come in Spagna con de Rivera, o peggio! Io spero che le esperienze di Pio IX col liberalismo freneranno al giusto certi entusiasmi di fronte al fascismo: certo che ora l’esperienza appena comincia”¹³.

Segretario di stato con Pio XI era il Cardinal Pacelli, che diventerà in seguito Pio XII, il quale spiega che sarà inevitabile, per quanto riguarda Hitler, uno sbocco in una guerra internazionale. Se la Chiesa si fosse mantenuta distante, avrebbe potuto esercitare il suo peso almeno in Italia per evitare che scendesse in guerra. Questo fu infatti l’argomento che la diplomazia vaticana mise in campo. Se la Chiesa non si fosse fatta coinvolgere non avrebbe visto ridotta la sua possibilità di influire sugli eventi. E l’evento che stava arrivando era quello, drammatico, dello scoppio di una nuova guerra mondiale con il rischio di adesione da parte anche dell’Italia. La Chiesa pensava di riuscire, in qualche modo, a evitarlo.

Era un’illusione, ovviamente. Ma questi erano gli argomenti che venivano usati, che chiaramente destano un certo scandalo, perché in essi non v’è traccia non solo di profezia ma neppure di lungimiranza.

Come ha ricordato Giovanni Miccoli se questo atteggiamento:

“poteva reggere di fronte allo Stato ideologicamente agnostico o almeno relativamente tale, o comunque rispetto a Stati in qualche modo omogenei tra loro riguardo alle concezioni generali, incontra nuove difficoltà ed entra in qualche modo in crisi di fronte agli Stati portatori di ideologie, che diventano esse la fede e la morale, che inglobano e annullano in sé l’antico, romantico concetto di patria: combattere per la “patria”, al di là delle intenzioni del singolo, diventa in realtà combattere per il trionfo o la sconfitta di quelle ideologie, di quelle visioni del mondo, che pretendono di esprimere e di assorbire l’uomo in tutte le sue manifestazioni. È il fatto, nuovo per certi aspetti, della seconda guerra mondiale, l’elemento di complicazione e di contraddizione, da cui la Santa Sede non riuscì a districarsi, e che forse non sempre e non subito avvertì in tutta la drammaticità delle sue possibili conseguenze (o meglio sembrò avvertirlo subito solo rispetto al comunismo)”¹⁴.

Ma allora perché i laici cattolici ancora tardano a schierarsi?

Sostanzialmente perché non hanno un partito che li aiuti a discernere storicamente la situazione e tutti i leader dei movimenti cattolici o sono all’estero, o sono in galera, o sono ridotti a rigidi controlli e, dunque, al silenzio, e nondimeno perché sono stati in gran parte educati ad obbedire alla Chiesa e a una certa idea di amor di patria. Accade anche oggi (figuriamoci a quei tempi!) che un certo vuoto di intelligenza politica venga colmato dal cosiddetto amor di patria. Non che questo sia un sentimento indecente, ma se non viene coltivato all’interno di una cultura politica, finisce per trasformarsi in nazionalismo (oggi diremmo sovranismo).

Le cose cambiano lentamente nel 1938 con le leggi razziste e nel 1939 con l’aggressione di Hitler alla cattolicissima Polonia. In quell’occasione la Chiesa sente il dovere di prendere posizione. A questo punto si fa più fragile la strategia diplomatica della Segreteria di Stato. Roosevelt manda in Vaticano un suo rappresentante, Taylor, per tentare di convincere la Segreteria di Stato a guardare con occhio interessato a un impegno sul versante della lotta apertamente antifascista.

Vengono allora allentati i controlli sul comportamento della periferia della Chiesa. Lo stesso arcivescovo di Modena, che aveva minacciato la sospensione a divinis nei confronti di don Monari e altri che si erano esposti sul piano dell’impegno antifascista, si mette in silenzio, solo dopo però la visita di un Monsignore mandato a convincerlo.

Così qualcosa si muove anche a Modena e parte una campagna di promozione di un impegno contro il regime in nome dell’“amore del prossimo” rivolta alle vittime della violenza fascista, a partire dagli ebrei, condannati all’ostracismo e alla deportazione nei campi di concentramento. Insomma, un antifascismo ancora più caritatevole che politico.

Un fatto importante per i cattolici della Fuci e gli intellettuali, sarà poi rappresentato dalla cosiddetta “risposta a un aviatore”, che è una lettera con cui Don Primo Mazzolari interloquisce con un ufficiale, Giancarlo Dupuis, sulla perdurante validità o meno della distinzione fra guerra giusta e guerra ingiusta. Mazzolari gli dice che la guerra è sempre ingiusta, ma se proprio vogliamo ragionare con queste categorie, possiamo dire che oggi c’è da fare la guerra giusta al fascismo.

Don Mazzolari aggiunge che, “tutto quello che noi preti vi abbiamo raccontato è carente sotto un profilo, quello della coscienza. Quando moriremo saremo giudicati per la nostra responsabilità non per la responsabilità del curato o del parroco che ci ha detto di fare una cosa o l’altra. Saremo giudicati per l’uso della nostra coscienza, per l’eventuale addormentamento della coscienza. È giunto il momento di risvegliare la coscienza e rendersi conto che la responsabilità personale non è eludibile”¹⁵.

Questi atteggiamenti che mettono in discussione la tradizionale prudenza della Chiesa e fanno appello alla coscienza personale, aprono a un clima nuovo nei giovani impegnati nelle parrocchie, nella Fuci, o nel “Paradisino” della Fuci di Modena. Si avvertono gli effetti del Vangelo, che durante quegli anni aveva a lungo lavorato nelle coscienze dei giovani credenti. Anche oggi non siamo abituati a riflettere sul fatto che la Parola ha una sua forza ineludibile, continua a lavorare dentro alla coscienza di ogni credente, basta lasciarla fare e arriveranno i risultati, cioè la maturazione di un senso del dovere che prima non si era avvertito con tale forza. È bastato allentare il controllo esterno sul loro comportamento perché in quei giovani affiorasse la consapevolezza di un nuovo senso di responsabilità, che portò finalmente alla decisione di entrare in campo.

Se leggete le biografie di Ermanno Gorrieri, Dossetti (Giuseppe ed Ermanno), Marconi, Salizzoni, Ardigò e Zaccagnini, i partigiani cattolici politicamente più significativi della nostra regione, troverete in tutte più o meno questo ragionamento: “io di politica allora capivo poco, sono entrato nella Resistenza non per una riflessione politica ma per una riflessione religiosa. Ero stato educato ad amare il prossimo e, siccome il prossimo era “violentato” dal regime fascista, ad un certo punto compresi che non potevo continuare a stare con le mani in mano”. Giuseppe Dossetti, Zaccagnini e Marconi fecero la Resistenza addirittura senza armi¹⁶. Era il modo di conciliare il dovere di scegliere e il dovere di essere fedele al comandamento¹⁷. Potrebbe sembrare legittimo il sospetto che questo fosse una scelta di convenienza, perché in quel caso il rischio lo avrebbero corso altri. Ma, per dimostrare che non c’era un calcolo del genere, Giuseppe Dossetti, Zaccagnini e Marconi, parteciparono a tutte le azioni militari, correvano gli stessi rischi dei loro compagni, ma disarmati. Un compromesso molto discutibile, se si vuole, ma allo stesso tempo significativo del dramma atroce che la partecipazione a una lotta militare provocava nelle coscienze di tanti giovani. Ma questo modello di combattente disarmato, è giusto ricordarlo, rappresentò pur sempre una sorta di testimonianza al limite dell’incoscienza, assolutamente minoritaria, per non dire poco più che individuale. La quasi totalità degli altri cattolici combattenti non si distingueva per disciplina militare e persino per durezza, dagli altri combattenti (lo documenta bene nel suo libro, già citato, Alessandro Santagata), se non per un certo “di più” di previa ponderazione delle probabilità di successo e delle possibilità di reazione per ogni azione militare.

Ha scritto Andrea Menozzi, su “Il Regno”, recensendo proprio il libro di Santagata¹⁸, che:

“Se ne può insomma ricavare che i cattolici sono costretti a un autonomo scandaglio della coscienza per giustificare la scelta di prendere le armi. Ovviamente le determinazioni intime dell’animo umano sfuggono all’occhio dello storico, che può solo leggere le tracce positivamente lasciate da quei moti profondi nelle carte private e pubbliche […] Un tratto comune sembra però collegare le diverse formazioni cattoliche che optano per la Resistenza armata: la convinzione che la violenza venga messa in campo a scopo difensivo. Si tratta, a seconda dei casi, di difendere la patria, la Chiesa, la comunità di provenienza, ma si tratta anche di preservare le condizioni per la prossima ricostruzione di una società cristiana che il fascismo non aveva realizzato e di cui, alleandosi con il nazismo, minava gli stessi presupposti”¹⁹.

Alessandro Santagata, d’altra parte, ha riflettuto, in altre pubblicazioni su tali aspetti notando come: “In assenza di un ordine costituito considerato legittimo e senza un’indicazione chiara da parte dell’episcopato, i cattolici sentirono il bisogno di ricondurre la scelta della Resistenza nelle categorie tradizionali della legittimazione della guerra e, più in generale, della teologia politica in materia di obbedienza o disobbedienza al potere temporale”²⁰.

 

5. La presenza dei cattolici

Da quanto detto sinora è del tutto evidente che la partecipazione dei cattolici alla Resistenza non ha avuto una dimensione quantitativa paragonabile a quella dei comunisti, anche se in alcune regioni del nord è stata rilevante e qualche volta persino superiore, financo nella nostra regione, penso alle province di Parma e Piacenza dove metà delle brigate era chiaramente formata da partigiani cattolici. E, peraltro, lo storico Vittorio Emanuele Giuntella, in un saggio dei primi anni ottanta, scriveva:

“La presenza dei cattolici militanti nella resistenza è frantumata e sfugge a una rilevazione numerica o a una sistematica classificazione, come si è tentato di fare da più parti, con intenti denigratori o apologetici. Nella condizione storica e geografica della Resistenza non si avrà mai abbastanza attenzione alla casualità dell’adesione a una formazione, o all’altra, per la vicinanza topografica, il prestigio goduto, la omogeneità (ex alpini, paesani della stessa valle, ceti sociali identici), l’urgenza della scelta, prescindendo dall’adesione o meno a un’ideologia che ispirava nella formazione nella quale entrava”²¹.

Lo stesso Benigno Zaccagnini, come è noto, militava in una Brigata garibaldina assieme al suo amico Arrigo Boldrini. Del resto, alla scelta intelligente del PCI del dopoguerra di “intestarsi” in una certa misura il patrimonio politico della Resistenza, avendone indubbiamente più di un titolo, ha corrisposto una certa timidezza del mondo cattolico nell’esibire il proprio ruolo. Al punto che De Gasperi alla fine degli anni quaranta – con il supporto organizzativo di Mattei, Cefis e Marcora – pensò bene di riempire piazza del Duomo a Milano di partigiani “bianchi” per rivendicare la connotazione antifascista della DC. Ma quanti furono in effetti i partigiani cristiani, pur con le riserve di stima avanzate dallo storico Giuntella? Secondo Enrico Mattei, che cercò di rispondere alla domanda nel congresso della DC del 1946, furono circa 65.000, presenti in 180 brigate. Probabilmente una stima viziata in eccesso, ma comunque il numero era importante. Il prof. Paolo Trionfini (un giovane storico modenese), che ha curato una lunga ricerca in proposito, indica tra gli aderenti dell’Azione Cattolica nazionale il numero di laici caduti in 1279 e 202 gli assistenti ecclesiastici, 112 gli insigniti di medaglie d’oro, 383 d’argento e 358 di bronzo.

 

6. L’assistenza e la difesa degli ebrei

Un settore in cui la presenza dei cattolici alla lotta contro il nazifascismo si distinse in modo particolare fu sicuramente quello dell’aiuto agli ebrei. Ha un senso particolare ricordarlo a Modena per le tante ragioni che voi conoscete bene.

Villa Emma e il campo di transito di Fossoli, sono per molti aspetti il simbolo della persecuzione degli ebrei (anche se non solo loro). Ma a buona ragione dovremmo aggiungere l’associazione “militante” O.S.C.A.R., che raccoglieva molte organizzazioni cattoliche milanesi e lombarde impegnate nell’assistenza salvataggio ed espatrio clandestino degli ebrei, i cui Capi vennero poi arrestati e deportati a Fossoli e lì uccisi nella strage di Cibeno, come l’ing. Carlo Bianchi e numerosi altri esponenti deportati successivamente nei Campi di sterminio nazisti, diversi dei quali appartenenti alle pattuglie clandestine del movimento scautistico “Aquile Randagie” o all’Azione Cattolica.

Nello Yad Vashem, a Gerusalemme, dove si ricordano i giusti fra le nazioni, cioè coloro che si distinsero per il coraggio mostrato nelle azioni di salvataggio degli ebrei, fra i modenesi troviamo, tra altri, i nomi del beato Odoardo Focherini, Don Dante Sala, Don Arrigo Beccari e Giuseppe Moreali.

In quell’ambiente, in quel clima, tra questi uomini rocciosi, maturò l’iniziativa di Don Zeno Saltini, un altro tra i più cari amici di Ermanno Gorrieri e Luigi Paganelli, di dar vita all’originalissima Comunità di Nomadelfia, che ancora oggi vive, seppur ormai lontano da Modena. Una comunità i cui principi costitutivi, al netto della carica utopica del suo fondatore, avrebbero poi accompagnato per tutta la vita gli studi, le battaglie e le opere, se ben ci pensiamo, dello stesso Ermanno, a conferma delle radicalità e della potenzialità generativa di quei principi evangelici a cui si ispirava, ognuno a modo suo, un’intera generazione di giovani cattolici, antifascisti.

 

7. Senza la presenza dei cattolici la Resistenza sarebbe stata un’altra cosa

Ma, a oltre settantacinque anni di distanza, a me pare doveroso riconoscere che l’apporto dei cattolici alla Resistenza debba essere valutato anche con altre categorie, rispetto a quelle quantitative. Abbiamo già accennato all’intelligenza storica e politica che la presenza dei cattolici ha recato alla lotta di liberazione, senza dire dell’intelligenza strategica e militare in senso proprio, tipica dei resistenti cosiddetti “Internati Militari Italiani” (IMI), abbastanza “affini” alla modalità resistenziale in particolare dei cattolici, il cui apporto è sempre stato sottovalutato, quantunque veramente massiccio: 500.000 di loro furono inquadrati nei reparti regolari a fianco degli alleati angloamericani, 100.000 lottarono con i partigiani, 716.000 (su 810.000) catturati dai nazisti furono internati nei campi di concentramento. I caduti in combattimento furono 87.000 e ben 299 i decorati con medaglia d’oro al Valor Militare²².

Ma per tornare più specificamente all’apporto dei cattolici, si deve dire che esso è risultato prezioso innanzitutto alla causa dell’accreditamento della lotta partigiana presso gli Alleati, in particolare inglesi e americani. La Resistenza non poteva più essere identificata con il solo movimento comunista (pur essendo già presenti altre formazioni come quella socialista e quella azionista, oggettivamente minori dal punto di vista numerico). Ci si poteva, dunque, fidare, e dopo l’ingresso dei cattolici ancora di più. La Resistenza si poteva e doveva aiutare, essendo certi gli Alleati non solo che si stava combattendo per la stessa causa, la lotta al nazismo, ma anche per l’obiettivo di un “dopo” inequivocabilmente democratico.

Ma poi, secondo aspetto non meno importante, la presenza dei cattolici ha contribuito in modo assolutamente decisivo ad allargare la base del consenso popolare alla lotta di liberazione. Giorgio Bocca, nella “Storia dell’Italia partigiana” dirà: “Senza l’aiuto del clero, tre quarti della pianura padana il Piemonte, la Lombardia, il Veneto rimarrebbero chiusi e difficilmente accessibili alla ribellione. La maggioranza è amica, quasi ogni parrocchia è un possibile rifugio, un sicuro recapito”²³.

Lo schieramento del clero contribuì a diffondere la convinzione che fosse giusto e doveroso schierarsi, per una parte importante della società che guardava alla Chiesa come punto di riferimento. Se questo avveniva nelle città, ancor più significativamente avveniva in campagna e soprattutto in montagna, dove il campo di influenza dei parroci era ancora superiore. Nel luglio del 1944 un esponente importante della Resistenza dei comunisti, il giovane intellettuale triestino Eugenio Curiel, lo riconobbe scrivendo su “La nostra lotta”: “Grazie all’apporto cattolico si è rafforzata la profonda solidarietà che lega ai partigiani i contadini e i valligiani”²⁴. In un certo senso si può dire che la partecipazione dei cattolici alla Resistenza ha portato in dote un atteggiamento di fiducia e simpatia, anche se non sempre di adesione, di ampie parti delle popolazioni, anche quelle che prima ne erano diffidenti.

Ma vi è un ultimo aspetto della Resistenza dei cattolici su cui vale la pena riflettere.

I cattolici introdussero, infatti, nella lotta partigiana anche un elemento che potremmo definire più genuinamente “politico”: mi riferisco al dibattito sul “dopo”, su cui altri avevano scelto di non parlare, consapevoli delle non piccole differenze al proprio interno, differenze che si trascinarono dalla lotta di liberazione ai primi anni del dopoguerra.

Questo voler parlare del “dopo”, cioè di quale modello di democrazia realizzare, di quale strategia portare avanti per la pacificazione del paese, di quale rapporto instaurare fra la nuova Italia e i paesi vincitori, cioè gli Alleati, evidenziò in effetti un dato non scontato: i cattolici sembrarono avere idee più mature sui problemi che attendevano di essere risolti nella nuova Italia. E, ancor più, consentì loro di giocare un ruolo nient’affatto subordinato all’Assemblea costituente. Anzi, si può ben dire che proprio essi ebbero un ruolo fondamentale nel definire l’architettura del nostro modello costituzionale, a partire dai “Principi fondamentali”. Non avevano ricevuto disposizioni da nessuno, la Democrazia Cristiana si stava infatti ancora facendo o quantomeno aveva ancora in corso la selezione della sua classe dirigente nazionale e locale, ma dalla periferia del paese del “dopo-Resistenza” stava crescendo attorno a essa un moto di coinvolgimento popolare, e di ceti intellettuali interessati a collaborare alla costruzione di un paese totalmente nuovo, oltreché, inevitabilmente, anche di chi era alla ricerca di una qualche forma di “riparo” politico. In tale contesto di fermento e mobilitazione, Togliatti che pure ne era avversario politico, anche duro, sarà decisivo nell’indicare prima come ministro degli Esteri del governo provvisorio guidato da Parri, e poi come Presidente del Consiglio del governo CLN successivo, Alcide De Gasperi.

Il quale impose sin da subito al suo partito, la Democrazia Cristiana, l’agenda dei problemi del paese, contribuendo a definirne in tal modo un’identità non ideologica e sostanzialmente di “partito della nazione”. Fu la fortuna della DC ma, ciò che più conta, dell’Italia. La DC divenne così non il partito cattolico né il partito dei cattolici, ma un partito aconfessionale e valoriale, liberale e personalista in cui si ritrovò, insieme alla maggioranza dei cattolici italiani, buona parte della borghesia democratica.

Certamente i primi anni della vita della Repubblica non furono facili, gli ostacoli internazionali e anche interni non furono facili da superare. Ma il paese ci riuscì, grazie all’apporto delle forze centriste che, dopo la rottura del “Tripartito” del 1947 si trovarono a governare da sole, che di quelle della sinistra che stavano all’opposizione”.

La Resistenza era servita, non solo a scrivere insieme la Carta costituzionale, ma a creare quel clima di “solidarietà di fatto” fra le forze politiche popolari, nazionali e antifasciste. Ma ci fu un merito particolare che, a mio avviso, va ascritto soprattutto a quella parte della DC da sempre dotata di una forte attenzione per il funzionamento delle istituzioni repubblicane. Aldo Moro in particolare ha sempre guardato con preoccupazione alla tenuta democratica del paese, a quell’aspetto specifico che lui definiva di “democrazia incompiuta”, cioè amputata. Quando, sia pure per ragioni storiche singolari quali sono quelle rappresentate dai legami internazionali di ciascuna forza politica, in una democrazia non diventano agibili i processi di alternanza al governo, quella democrazia diventa malata e va curata. Non a caso il primo centro sinistra degli anni Sessanta e la solidarietà nazionale del decennio successivo, rappresentano i suoi capolavori politici, realizzati insieme a Nenni prima e Berlinguer poi, che portarono progressivamente a quella che potremmo definire, la condizione di “normalità” della democrazia italiana. Ci lasciò purtroppo la vita.

Non è così straordinario che le democrazie, per nascere e per continuare a vivere, richiedano il sacrificio di alcuni martiri, lo è semmai che di loro si perda la memoria.

Ma l’eredità positiva della Resistenza nel dopoguerra la si è potuta vedere anche su altri fronti. In particolare su quello della pace e della realizzazione del cammino indicato dall’art. 11 della nostra Carta. Il costituente Giuseppe Dossetti era solito rilevare che la guerra si era conclusa con una formale spartizione del mondo in due che si sarebbe dovuta gradualmente superare, con la necessità di chiudere la fase del colonialismo assistendo i popoli nuovi nel loro legittimo diritto a partecipare ai benefici della nuova fase e, purtroppo, con la scellerata invenzione dell’arma nucleare capace, per la prima volta nella storia dell’umanità, di distruggere l’intero genere umano e, dunque, con la necessità di costruire strutture di un multilateralismo internazionale, a partire da una nuova Organizzazione delle Nazioni Unite, in grado di favorire e costruire la pace.

Ebbene va dato atto al nostro paese di aver giocato nei primi decenni del dopoguerra un ruolo importantissimo per garantire una condizione minima di convivenza internazionale in particolare nel bacino del Mediterraneo e nel Medio Oriente. Così come va riconosciuto all’Italia, al presidente Alcide De Gasperi in particolare, di aver dato un contributo decisivo alla nascita della Comunità Europea. Purtroppo il cammino dell’integrazione europea è risultato assai più tortuoso e difficile di quanto si fosse immaginato, e oggi rischia di essere vanificato dall’insorgere di pericolosi processi nazionalistici e sovranisti all’interno di alcuni paesi europei, come l’Ungheria e la Polonia. Dunque la lezione della Resistenza deve essere rimessa in campo, a conferma del fatto che la democrazia, le democrazie, non sono conquistate una volta per sempre.

Ma c’è un’ultima lezione che dovrà essere ripresa. Quella su cui ha lavorato per tutta la vita Ermanno Gorrieri: la giustizia sociale. Chi ha combattuto, chi ha dato la vita e chi l’ha messa a rischio, l’ha fatto per conquistare la libertà e non di meno una società guidata dai valori della giustizia e dell’uguaglianza. Guai ad abbassare la guardia etica e politica su questi valori! Se ne salta uno, saltano anche gli altri. Se li difendiamo in un solo paese, vuol dire che accettiamo che negli altri paesi possano essere negati. Se conta solo la nostra vita e non conta la vita di chi proviene da altre parti del mondo, comincia quella che Papa Francesco definisce “catastrofe”, l’umanità diventa disumanità.

E allora torna la domanda-accusa dei nostri partigiani: perché allora abbiamo combattuto, perché abbiamo dato la vita?

 


¹ Atti Assemblea costituente, 21 marzo 1947, pp. 2333 2334.

² M. Bloch, Apologia della storia o Mestiere di storico, Einaudi, Torino 2009, p. 36.

³ Qui la Chiesa scomparirà, in “Il Regno”, 18/1990, p. 537.

⁴ Cfr. E. Gorrieri G. Bondi, Ritorno a Montefiorino. Dalla Resistenza sull’Appennino alla violenza del dopoguerra, Il Mulino, Bologna 2021.

⁵ A. Santagata, Una violenza “incolpevole”. Retoriche e pratiche dei cattolici nella Resistenza veneta, Viella, Roma 2021, p. 36.

⁶ Cfr. F. L. Ferrari, «La politica fa parte anche del nostro amore». Lettere a Lina Filbier (1918-1933), P. Trionfini a cura di, Studium, Roma 2016.

⁷ F. L. Ferrari, Il regime fascista italiano, G. Ignesti a cura di, Edizioni di storia e letteratura, Roma 1983, p. 389.

⁸ G. De Rosa, Sturzo mi disse, Morcelliana, Brescia 1982, p. 46.

⁹ Radiomessaggio di Sua Santità Pio XII alla vigilia del Santo Natale Giovedì, 24 dicembre 1942 (in https:// www.vatican.va/content/pius-xii/it/speeches/1942/ documents/hf_p-xii_spe_19421224_radiomessage-christmas.html, ultima consultazione 16 ottobre 2021).

¹⁰ Cfr. L. Giorgi, Gli Scomodi. Popolari e sacerdoti nel Casellario Politico Centrale durante il fascismo, in “I Quaderni del Ferrari”, Edizioni Centro Ferrari Sias, Modena 2015.

¹¹ R. Moro, Le chiese e la modernità totalitaria, in Le religioni e il mondo moderno, G. Filoramo a cura di, vol. I, Cristianesimo, D. Menozzi a cura di, Einaudi, Torino 2008, pp. 443 444.

¹² Citazione in A. Riccardi, La segreteria di Stato e la diplomazia vaticana tra guerra e dopoguerra, in G. De Rosa a cura di, Cattolici, Chiesa, Resistenza, Il Mulino, Bologna 1997, pp. 70 71.

¹³ A. De Gasperi, Lettere sul Concordato, Marietti, Brescia 2004, p. 45 e pp. 49 50.

¹⁴ G. Miccoli, I dilemmi e i silenzi di Pio XII. Vaticano, Seconda guerra mondiale e Shoah, Rizzoli, Milano 2007, pp. 431 432.

¹⁵ M. Tenconi, I cattolici nella Resistenza contro l’anticristo nazifascista, ricerca promossa dall’ANPI, www.anpimagenta.it

¹⁶ G. Bianchi, Resistenza senza fucile, Jaca Book, Milano 2017.

¹⁷ L’obiezione di coscienza all’uso delle armi fu invocata dai cristiani dei primissimi secoli, come tratto irrinunciabile della loro fedeltà a Cristo, P. Siniscalco, Massimiliano: un obiettore di coscienza del tardo impero, Paravia, Torino, 1974.

¹⁸ Cfr. A. Santagata, Una violenza «incolpevole». Retoriche e pratiche dei cattolici nella Resistenza veneta, cit.

¹⁹ D. Menozzi, Nonviolenza e legittima difesa. Le prudenze di Francesco e la Resistenza cattolica, in “Il Regno”, 16/2021, pp. 506 507.

²⁰ A. Santagata, La Resistenza come problema morale, in Lo spirito della ricostruzione. La mediazione tra fede, cultura e politica negli anni del dopoguerra, T. Torresi a cura di, Atti della giornata di studi. Monastero di Camaldoli 24 agosto 2017, Edizioni Camaldoli, Camaldoli 2018, p. 36.

²¹ V.E. Giuntella, I cattolici nella Resistenza, in Dizionario storico del movimento cattolico in Italia, 1860 1980, diretto da F. Traniello e G. Campanini, Torino, Marietti 1981, vol. I, 2, pp. 112-128, p. 112, ora in A. Santagata, Una violenza “incolpevole”, cit., p. 14.

²² G. Bianchi, Resistenza senza fucile, cit.

²³ G. Bocca, Storia dell’Italia partigiana, Feltrinelli, Milano 2012.

²⁴ M. Tenconi, I cattolici nella Resistenza contro l’anticristo nazifascista, ricerca promossa dall’ANPI, www.anpimagenta.it