Gerusalemme e il compito delle città: fare pace, dando voce al dolore dell’altro

di Paolo Petracca

La tregua pare reggere nel conflitto israelo-palestinese ma occorre dare respiro alla pace.

“Per governare bene una città occorre occuparsi con la stessa cura dei lampioni del Ponte Vecchio e della pace nel mondo” così la pensava Giorgio La Pira. Il professore di Pozzallo paragonava il Mediterraneo al Lago di Tiberiade e immaginava le sue rive abitate da popoli fratelli di tre religioni unite dalla fede in un unico Dio. E immaginava come simbolo di questa “convivialità delle differenze”: Gerusalemme.

Quanto è lontano il suo sogno oggi eppure quanto sarebbe necessario che si realizzasse.

Il Cardinal Martini sosteneva che non ci sarebbe mai stata pace sulla Terra se non vi fosse stata pace nella città santa. Ma come si fa a costruire la pace in una situazione così complicata e complessa? L’Arcivescovo provava ad indicare la strada il 27 agosto del 2003 in un articolo sul Corriere della Sera redatto proprio mentre si trovava nel luogo delle sue Conversazioni Notturne. Scriveva echeggiando Lévinas: “certamente l’odio che si è accumulato è grande e grava sui cuori. Vi sono persone e gruppi che se ne nutrono come di un veleno che mentre tiene in vita insieme uccide. Per superare l’idolo dell’odio e della violenza è molto importante imparare a guardare al dolore dell’altro. La memoria delle sofferenze accumulate in tanti anni alimenta l’odio quando essa è memoria soltanto di sé. Se ciascun popolo guarderà solo al proprio dolore, allora prevarrà sempre la ragione del risentimento, della rappresaglia, della vendetta. Ma se la memoria del dolore sarà anche memoria della sofferenza dell’altro, dell’estraneo e persino del nemico, allora essa può rappresentare l’inizio di un processo di comprensione. Dare voce al dolore altrui è premessa di ogni futura politica di pace. Il superamento della schiavitù dell’idolo consiste nel mettere l’altro al centro, così da creare quella base di comprensione che permette di continuare il dialogo e le trattative”.

Per aiutare questo cambiamento le nazioni e le città devono avere nel cuore Gerusalemme anzi dovrebbero avere come cuore Gerusalemme e allora domando: perché non chiedere che divenga una città internazionale sotto l’egida delle Nazioni Unite o perché addirittura non porvi profeticamente la sede del ONU?

Perché le più grandi città del mondo con le loro reti non si rendono responsabili di questo sogno di pace, magari anticipandolo con l’istituzione, in un angolo della città vecchia, di un'”ambasciata delle metropoli” che sostenga tutti coloro che oggi in Terra Santa promuovono un futuro di convivenza feconda da Nevé Shalom – Wahat as-Salam ai Parent Circles?

La Pira non aveva paura di convocare a Firenze uomini e donne di buona volontà da tutto il pianeta, propongo che anche oggi si provi a fare qualcosa di simile. È nelle nostre possibilità provare a far compiere un impercettibile passo in avanti al processo di pace.

 


 

Pubblicato il 2 giugno 2021 su Avvenire

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