Dispensa di cultura e formazione politica n.5

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Il principio dell’eguaglianza

Il problema dell’eguaglianza è stato posto nell’epoca moderna, in modo solenne e per così dire imperituro, dalla dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti e dalla Rivoluzione Francese.
La Dichiarazione francese dei diritti dell’uomo e del cittadino (1789) afferma, all’art.1, che “Gli uomini nascono e sono liberi ed eguali in diritto. Le distinzioni sociali non possono essere fondate che sulla utilità comune”.
Naturalmente si tratta di un’eguaglianza formale (la seconda parte è stata subito accantonata): ognuno è uguale davanti alla legge, ma chi fa le leggi? Così l’eguaglianza formale porta direttamente ai diritti politici e civili.
E poi per partecipare occorre essere in buona salute, avere un’istruzione, godere di un reddito adeguato; in sostanza è richiesta una certa eguaglianza economica e sociale.
Se dall’eguaglianza formale si passa a quella sostanziale, immediatamente i problemi si complicano perché non si tratta più di riconoscere dei diritti, ma di realizzare degli interventi di redistribuzione della ricchezza, in particolare a favore degli svantaggiati (come afferma in modo esauriente l’articolo 3 della Costituzione “E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”).
In altre parole, stabilire che gli uomini sono uguali “in diritto” non è sufficiente perché lo siano anche nella realtà, dove invece sono presenti molteplici differenze.
Però questo principio, sia pure solo in diritto, costituisce una potente motivazione per sostenere la causa dell’eguaglianza.
Così, passando alla realtà sociale, è possibile sostenere, in coerenza al principio, che non si dovrebbero accettare diseguaglianze non adeguatamente giustificate e neppure diseguaglianze eccessive, che superino determinati limiti.
In secondo luogo, sia dalle dichiarazioni storiche, americana e francese, sia dalla nostra Costituzione, deriva un altro concetto essenziale: il sistema democratico si basa sostanzialmente su una società egualitaria, perché è il governo di un popolo, un governo di uguali, dove tutti contano uno. Le differenze eccessive porterebbero a uno squilibrio di potere non democratico: chi ha di più conterebbe di più.
Ciò è particolarmente evidente nell’esperienza americana dell’origine; non esistevano nobiltà, aristocrazia, grandi proprietari, poteri preesistenti, tutti i cittadini erano coloni in una condizione di sostanziale eguaglianza. In queste condizioni è nata la prima democrazia.

Le ragioni della disuguaglianza

Alle tesi dell’eguaglianza si oppongono coloro che ritengono che le disuguaglianze siano motivate e ragionevoli.
La motivazione più antica e tradizionale in proposito è quella che sostiene l’origine naturale della disuguaglianza, sia che si tratti di differenze personali che di differenze legate alla condizione sociale.
Si tratta di una posizione accettabile, ma solo in termini parziali, non in assoluto.
Sul piano personale se, ad esempio, una persona nasce con una disabilità, si tratta di una differenza che la società può e deve affrontare in modo da offrirle la possibilità di superare per quanto possibile questo handicap di partenza.
Nel caso invece di chi nasce in condizioni privilegiate (trascurando qui da dove derivi la sua ricchezza, perché in molti casi il patrimonio accumulato ha origini dubbie o discutibili), è certamente lecito alla società e allo Stato realizzare provvedimenti che realizzino un riequilibrio oltre un certo livello di ricchezza, in particolare con l’imposta patrimoniale e tassando l’eredità.
La motivazione però più diffusa e più fondata, a giustificazione della disuguaglianza, è indubbiamente quella del merito e del lavoro, che possono essere accomunati perché basati sul medesimo principio: a un merito o lavoro maggiore o migliore è giusto corrispondere un riconoscimento economico maggiore.
E’ una tesi condivisibile che solleva però un problema enorme, causa di infiniti e profondi contrasti: come valutare il diverso merito e fin dove si può spingere la massima differenza tra il livello più basso e quello più alto?
Il caso più evidente, che illustra la mancanza di criteri di misura e di controllo su queste differenze, è rappresentato dal livello delle remunerazioni raggiunto dagli amministratori delegati di molte imprese, particolarmente in USA, ma un po’ in tutto il mondo e anche in Italia.
Se la differenza del guadagno tra l’operaio medio e l’amministratore delegato era un tempo di 20-30 volte, ora spesso supera anche le 500 volte. In Italia la media della remunerazione dei primi dieci manager era di 6,41 milioni di euro nel 2008 (416 volte il guadagno di un operaio) ed è salito a 9,59 milioni nel 2020 (cioè 649 volte). Merita segnalare che Banca Etica, in cooperazione con altri investitori etici, interviene in tutte le assemblee di imprese in cui è azionista per sostenere il rapporto massimo, più equilibrato, di 1:100.
E’ il problema, poco affrontato, che oltre a stabilire un salario e un reddito minimo, sarebbe opportuno fissare anche un tetto massimo delle retribuzioni, sia nel settore pubblico che nel privato.
Poiché nel privato è inevitabile lo scontro con tanti interessi consolidati, che si mascherano dietro il principio di libertà, si potrebbe intanto procedere attraverso una forma di raccomandazione e di persuasione morale (nominando, ad esempio, una Commissione di saggi col compito di definire dei livelli equi). Si inizia così a stabilire criteri e misure, informando l’opinione pubblica, per far crescere la consapevolezza collettiva e indurre progressivamente un comportamento coerente.
A proposito di differenze ce ne sono molte che sono ingiustificate, alcune rilevanti, altre particolari nel senso che riguardano gruppi o settori specifici.
In un bel discorso, tenuto alle Letture annuali Ermanno Gorrieri 2017 su “Diseguaglianze inaccettabili”, Maurizio Franzini traccia un quadro esauriente di questa realtà: posizioni di potere da cui derivano benefici indiretti, situazioni di monopolio o quasi-monopolio, mercati protetti, leggi favorevoli a certe categorie, difficoltà di accesso ai mercati per i nuovi, vantaggi derivati dai dati in possesso e così via.
In tanti settori è costante la ricerca di posizioni di privilegio da cui derivano rendite permanenti, benefici tanto immeritati quanto lucrosi.

La disuguaglianza attuale e le sue cause

Il grave problema attuale deriva dal fatto che dagli anni ’80 ad oggi la disuguaglianza è costantemente cresciuta e ha raggiunto livelli molto elevati.
Le cifre che mettono a confronto la quota dei redditi destinata ai più ricchi rispetto a quella dei più poveri appaiono impressionanti.
Secondo Thoma Piketty (dati del 2018) il 10% dei più ricchi riscuote il 32% dei redditi in Europa, il 47% in Russia, il 48% in USA, il 55% in India e Brasile, il 63% in Medio Oriente, il 68% in Qatar (il paese che detiene il massimo della concentrazione).
Se poi si confrontano ricchi e poveri, vediamo che in Europa di fronte al 32% di redditi posseduti dal 10% più ricco si contrappone il 21% dei redditi del 50% degli scaglioni più bassi (i più poveri); negli Stati Uniti è ancora peggio con il 48% dei più ricchi e il 13% detenuto dal 50% più povero; nel Medio Oriente poi la differenza è abissale, ai ricchi va il 68% e ai poveri l’8%.
Addirittura, l’1% dei più ricchi negli Stati Uniti (i ricchissimi) guadagnano di più del 50% dei più poveri, il 20% contro il 13%, e ancor peggio in Medio Oriente, dove l’1% dei più ricchi guadagna tre volte la somma dei redditi dei più poveri (50% ai primi contro il 10% degli altri).
Anche la concentrazione dei patrimoni conosce la medesima tendenza: in costante diminuzione dal 1900 sino attorno agli anni’80, hanno poi iniziato a crescere, dal 15 al 20% nel Regno Unito, dal 15 al 23% in Francia, dal 20 al 43% in Russia, negli Stati Uniti dal 22 al 38% (ci si riferisce al 10% più ricco).
In Italia si registra un’analoga direzione, ma in termini più contenuti: l’1% dei più ricchi è passato dal 1980 ad oggi dal 6% del reddito al 9%.
Da ultimo, il Rapporto Oxfam presentato a Davos nel gennaio 2023 segnal che nel 2022 all’ 1% più ricco è andato il 63% della ricchezza, mentre il resto 99% ha avuto il restante 37%.
Queste tendenze, come nota Piketty, sono strutturali e sono tuttora in corso. Le cause principali sono sia di carattere economico che politico.
Sul piano economico il dominio della finanza e delle multinazionali, in un quadro neoliberistico, ha portato a un costante vantaggio del capitale: in tutti questi anni il capitale ha conosciuto un guadagno superiore all’incremento del reddito e ciò spiega lo spostamento di ricchezza verso i possessori di azioni e di chi sta al vertice della scala.
Parallelamente è fortemente diminuita la forza del lavoro e del sindacato.
I salari sono cresciuti poco o non sono cresciuti (l’Italia, fanalino di coda, ha registrato tra il 1980 e il 2020 una diminuzione dei salari reali del 2,9%) e la quota dei redditi di lavoro sul prodotto interno (PIL) è scesa in tutti i paesi sviluppati da un livello attorno al 70% a livelli tra il 55 e il 60%.
L’indebolimento del sindacato è dovuto soprattutto al fatto che buona parte della ricchezza ora viene prodotta o estratta in imprese lontane (con salari molto più bassi) oppure dalla finanza: in questo modo la contrattazione vede seriamente ridimensionato il suo potere redistributivo.
(La debolezza del sindacato non è dovuta particolarmente alla diminuzione degli iscritti, problema reale ma non rilevante in Italia; avviene piuttosto il contrario, è la diminuzione di potere del sindacato che allontana gli iscritti).
Un secondo grande motivo dell’accentuarsi delle differenze di reddito va visto nella politica fiscale, che ha registrato una sostanziosa riduzione dell’imposizione sui redditi più alti.
Negli Stati Uniti, per un lungo periodo di tempo e fino al 1980, il livello di tassazione di questi scaglioni di reddito era dell’80% e nel Regno Unito giungeva fino all’ 89%: ora sono rispettivamente del 38,6% e del 40%.
A cifre non molto diverse sono stabiliti questi livelli nei paesi europei: 43% in Italia (oltre i 50.000 euro), 45% in Francia (ma per redditi superiori a 156.244 euro), 45% in Germania (sopra i 274.613).
Questa politica ha fortemente influito sulle diseguaglianze, che prima venivano riequilibrate attraverso un’alta progressività.
Quella della riduzione delle tasse è stata un’importante politica della destra, che ha allettato facilmente tanta gente: in realtà le classi medie non hanno guadagnato e le classi basse hanno perso seriamente con l’inevitabile riduzione della spesa sociale.
Si è creata un’opinione pubblica tendenzialmente favorevole alla riduzione delle tasse, così è stata tolta la tassa sulla prima casa e si sono ridotte le tasse sull’eredità; e poi è diventato praticamente impossibile parlare di patrimoniale, rendendo estremamente difficile una politica egualitaria.

La disuguaglianza e la democrazia

Negli anni recenti, come abbiamo visto, il problema della disuguaglianza è diventato grave, in quanto ha raggiunto livelli insopportabili: e ogni nuova crisi (il Covid e l’inflazione conseguente alla guerra in Ucraina) produce ulteriori peggioramenti.
Nello stesso tempo costituisce un problema assai arduo da affrontare, perché si inserisce nelle trasformazioni causate dalla globalizzazione, le quali hanno determinato una concorrenza estrema nel campo del lavoro, giustamente definita “race to bottom”.
Anche le migrazioni, altro problema strettamente connesso, sono state definite da un eminente studioso della povertà, Angus Deaton, “la grande fuga”, cioè fuga dalla miseria, dalla siccità, dalle guerre, da condizioni disumane. E nel mondo milioni e milioni di persone attendono solo di essere trattati come gli esseri umani occidentali.
La disuguaglianza in atto causa problemi crescenti e innanzitutto provoca un aumento della povertà che rischia di diventare una realtà permanente da cui è poi difficile uscire.
E questo anche perché la povertà, come dicono molti fra cui innanzitutto Armatya Sen, non è solo un problema economico: essa ha spesso più dimensioni e non sono sufficienti le risorse economiche, se poi mancano le capacità di usarle, cioè l’autonomia che consente di assumere l’iniziativa necessaria.
Contemporaneamente, provoca nei ceti medi la paura di cadere in basso, di scendere nella scala sociale, da cui derivano atteggiamenti egoistici di chiusura contro potenziali e fantomatici nemici.
Questa situazione è causa di gravi conseguenze per la democrazia, fra cui l’estesa disaffezione dalla politica (l’astensionismo, soprattutto nelle classi basse) e la diffusione delle ideologie populiste e a volte anche razziste.
La democrazia è poi messa in pericolo dalla concentrazione di potere: è sotto gli occhi di tutti l’esempio di Trump e l’enorme capacità di influenza delle grandi imprese di comunicazione in mano al libero arbitrio di singoli personaggi.
Giustamente un membro della Suprema Corte degli Stati Uniti, Louis Brandeis, diceva “Si può avere o la democrazia o una forte concentrazione della ricchezza, ma non entrambe le cose nello stesso tempo”.
Anche l’ascensore sociale, quel meccanismo che nei tempi di sviluppo economico consentiva a molti un’ascesa sociale, sembra non funzionare più.
Joseph Stiglitz nei suoi scritti mette in luce come i ricchi siano in grado di assicurare ai figli le scuole migliori (che in USA sono private e molto costose), i posti di lavoro migliori, lasciando poi loro eredità cospicue: così la differenziazione sociale si perpetua nel tempo.
(Un fatto curioso, ma indicativo: da una ricerca storica a Firenze è risultato che 807 famiglie benestanti del 1427 sono ancora presenti oggi).
Un’enorme influenza su questi processi l’ha avuta la grande ondata neoliberistica che ha travolto interi capisaldi del pensiero politico sociale: basti pensare al danno provocato dall’idea che non esistano più le classi e che il conflitto capitale/lavoro sia ormai tramontato e superato.
Del resto, anche pensatori attuali importanti non hanno aiutato molto a riguardo: le tesi di John Ralws sulla giustizia, le più diffuse negli anni recenti a livello accademico, sono assimilabili al trickle-down e l’idea della società liquida di Zigmunt Bauman sembra suggerire che non sia possibile nessuna idea “solida”, nessun punto fermo di riferimento per affrontare la realtà e valutarla.
Tutto ciò dimostra che occorre avere la forza di affrontare questa situazione con determinazione e con idee politiche nuove che assumano con decisione il compito di riproporre una visione egualitaria della società, che garantisca ad ogni persona una condizione dignitosa di vita, che affronti il problema della ricchezza non solo nella fase redistributiva ma anche nel momento della sua formazione, che non abbia paura di redistribuire i redditi con innovazioni importanti (salario minimo, reddito di base, inserimenti al lavoro, imposta patrimoniale), sfidando i poteri finanziari ed economici.
La Costituzione aveva avviato uno stretto legame tra lavoro e democrazia: quel tempo è passato, ma si tratta di ricostruire in condizioni diverse e in forme diverse un equilibrio che è essenza stessa di una società democratica e giusta.

Cosa è possibile fare?

Le trasformazioni intervenute in questi decenni (avvento e dominio del neoliberismo in un mondo globalizzato) hanno portato a uno sconvolgimento degli assetti politici e sociali a cui eravamo abituati ed entro i quali si valutavano gli equilibri sociali, i rapporti tra capitale e lavoro, i criteri di giustizia fiscale e di ripartizione del reddito nazionale.
Non c’è solo da prendere atto che la disuguaglianza continua ad aumentare, ma molto più profondamente è mutato l’intero quadro entro cui avviene questo processo anti-egualitario.
E’ necessario per questo affrontare il tema della disuguaglianza in connessione al sistema economico e politico, tenendo conto delle modificazioni che l’hanno caratterizzato.
Innanzitutto, appare ineludibile adottare oggi una visione che comprenda l’intera umanità, sia perché i problemi del mondo entrano ormai ogni giorno nella nostra vita, sia perché dai popoli di tutto il mondo sale una domanda di giustizia e di uguaglianza che non può essere passata sotto silenzio.
Se, per assurdo, seguendo la logica neoliberista, si attuasse una totale concorrenza internazionale, togliendo ogni vincolo e ogni dazio, i salari di tutto il mondo tenderebbero ad eguagliarsi e non certo al livello più alto.
Non è certamente quello che desideriamo, ma allora occorre agire per costruire percorsi e alternative realistiche che presentino una prospettiva di progresso per le condizioni dei popoli a livello mondiale.
In secondo luogo, occorre rimettere al centro un’idea di giustizia sociale che sia di orientamento all’agire politico ed economico, che limiti gli eccessi, che favorisca l’affermarsi di soluzioni e di criteri per la distribuzione della ricchezza, contribuendo così alla realizzazione di una società più egualitaria, più pacifica, meno paurosa e più disposta a una cordiale convivenza. E’ necessario lo sviluppo, ma deve essere equo socialmente e rispettoso dell’ambiente
Queste premesse servono a ribadire un fondamento essenziale, per poi passare a indicare alcuni possibili interventi e soluzioni: prima di realizzare questo o quell’ intervento si tratta di avere una visione “comprensiva” entri cu inserire le possibili iniziative.
Gli interventi necessari riguardano innanzitutto l’economia e in questo campo l’elenco si presenta sia lungo sia importante su molte questioni.
Si pensi, ad esempio, alla sfera della finanza: bisognerebbe abolire i paradisi fiscali, mettere sotto controllo la finanza derivata e lo stesso sistema bancario internazionale, abolire almeno in Europa la gara a conquistare la domiciliazione delle imprese applicando bassi oneri fiscali, ecc..
A livello nazionale una politica fondamentale è quella fiscale dove si dovrebbe, in prospettiva, alzare il livello di tassazione dei redditi più elevati (Atkinson propone il 65% contro poco più del 40% attuale) e anche operare sulla tassazione dell’eredità e sull’imposta patrimoniale, con significativi risvolti egualitari.
Naturalmente molto importanti sono gli interventi relativi al salario minimo e al reddito di base (per coloro che non sono in condizioni di lavorare); si dovrebbe mirare ad avere un salario e un reddito “vitali”, cioè in grado di assicurare una condizione di vita dignitosa ad ogni persona.
Per quanto riguarda il lavoro, per chi è disoccupato, occorre prevedere una forma di reddito collegato a percorsi di formazione e di inserimento, ma poiché il lavoro spesso manca è importante che il settore pubblico svolga una politica di sviluppo dei posti di lavoro.
Infine, se il sindacato si trova indubbiamente indebolito dall’affermarsi della globalizzazione, il suo ruolo rimane essenziale e pertanto è un interesse generale che la contrattazione venga valorizzata coprendo il più vasto arco di persone, perché molti sono i lavoratori la cui condizione dipende da un contratto di lavoro.
Non possiamo comunque pensare che sia sufficiente attivare qualche strumento per realizzare il miracolo dell’eguaglianza: sono molteplici i problemi da affrontare in una battaglia che si presenta lunga e complessa (e mai finita), che riguarda l’intera società e che dipende molto dalla coscienza che questa ha del problema e anche di sé stessa.

BIBLIOGRAFIA:

ATKINSON Anthony, Disuguaglianza. Che cosa si può fare, Cortina, Milano, 2015
DEATON Angus, La grande fuga, Il Mulino, Bologna, 2015
FRANZINI Maurizio, Disuguaglianze inaccettabili, Lettura annuale Ermanno Gorrieri, 2017
PIKETTY Thomas, Capitale e ideologia, La nave di Teseo, Milano, 2020
SCHIAVONE Aldo, Eguaglianza. Una nuova visone sul filo della storia, Einaudi, Torino, 2019
SEN Amartya, La diseguaglianza. Un riesame critico, Il Mulino, Bologna, 1994
STIGLITZ Joseph, Il prezzo della diseguaglianza, Einaudi, Torino, 2013
VOLPATO Chiara, Le radici psicologiche della disuguaglianza, Latera, Bari, 2019


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