Dispensa di cultura e formazione politica n.3

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Premessa.

L’Italia e le nuove tendenze liberali.

All’ indomani della Rivoluzione Francese in tutta Europa si levarono movimenti e proteste nei confronti degli Stati assolutisti, i quali progressivamente si trovarono costretti a concedere Statuti più aperti alle libertà civili e alle nuove idee liberali.
In particolare, nel 1848, quasi contemporaneamente, in molti paesi vi furono manifestazioni imponenti che chiedevano indipendenza e cambiamenti di regime.
In Italia i problemi si presentavano in modo più complesso perché, al tema delle richieste in senso liberale, si aggiungevano due problemi specifici: da una parte la questione dell’unificazione dei molteplici staterelli presenti e inoltre la questione dello Stato pontificio.
Il Piemonte, lo Stato più indipendente e più “liberale”, entrò in guerra con l’Austria al fine di liberare il Lombardo-Veneto e iniziare così il processo di unificazione; questo tentativo fallì nel 1848, ma ebbe invece successo anni dopo, nel 1859, grazie all’appoggio della Francia; gli altri stati della penisola colsero l’occasione per sollevarsi e per unirsi, così nel 1861 nacque l’Italia.
Nel gruppo dirigente liberale piemontese era molto forte la componente anticlericale (che giungeva fino a sostenere l’abolizione della chiesa, dei preti e della religione), la quale fece approvare la legge della soppressione degli ordini religiosi (1855) e quella sull’asse ecclesiastico (1866), leggi che successivamente, nel 1873, furono estese all’intero Regno d’Italia.
L’avvento del liberalismo aveva suscitato anche un orientamento cattolico-liberale, con personalità di spicco (Manzoni, Rosmini, Gioberti), tra i quali prevaleva un’interpretazione spirituale che coglieva il cambiamento come un’occasione di riflessione e di approfondimento. Solo il Gioberti si era lanciato in un’ardita e ben poco realistica ipotesi di un’Italia unita con a capo il Pontefice.
Nel frattempo, Pio IX, fortemente preoccupato delle idee moderne spesso antireligiose e in ogni caso contrarie alla tradizione cattolica, pubblica l’enciclica Quanta Cura (1864), cui è annesso il Sillabo, severo elenco di errori condannati; la speranza di trovare qualche forma, se non di intesa, almeno di convivenza, con il mondo che si va delineando, viene a cadere.
Lo Stato italiano rompe gli indugi e, approfittando di un momento internazionale favorevole, occupa Roma (1870), mettendo così fine, dopo secoli, al potere temporale dei Papi.
Il Papa lo ritiene un sopruso e una condizione che gli impedisce di esercitare liberamente la propria funzione e invita pertanto i cattolici italiani a unirsi alla sua protesta, esercitando un’opposizione assoluta nei confronti del nuovo Stato.
Avviene pertanto una rottura destinata a durare a lungo: una delle forme che assumerà questa opposizione radicale sarà quella del “non expedit” (non è opportuno), in pratica il divieto per i cattolici di partecipare alle elezioni politiche (il decreto emanato nel 1871 sarà formalmente annullato solo nel 1919).
È vero che alle elezioni partecipava solo un numero esiguo di persone (si tratta di 239.000 partecipanti, l’1,4% della popolazione, nella prima elezione del 1861; nel 1870 sarà lo 0,9%), ma comunque astenendosi non si può essere eletti e quindi contare nella formazione delle leggi e del governo.

L’ Opera dei Congressi e l’azione sociale dei cattolici.

I cattolici, impediti di partecipare politicamente, si riversano, oltre che nelle attività religiose, in quelle sociali; questa dimensione sociale da allora rivestirà un carattere distintivo del cattolicesimo italiano.
I cattolici danno subito vita a organizzazioni: innanzitutto la Gioventù Cattolica Italiana (1868) destinata a durare e avere un ruolo importante, ma soprattutto per l’epoca in questione, l’Opera dei Congressi, che assume il compito di unire in un’unica grande organizzazione tutte le molteplici attività cattoliche a sostegno dello scopo supremo, la difesa del Papa e delle giuste rivendicazioni della Chiesa.
La guida dell’Opera era naturalmente in mano agli “intransigenti” -coloro che ritenevano che non ci fosse nessuna possibilità di accordo con una Stato usurpatore e anticlericale – gruppo che ebbe il primato per tutto l’Ottocento.
Le voci dei “transigenti” (o cattolici concilianti) – coloro che mantenendo la fede cattolica ritenevano necessario venire a patti con lo Stato in cui si viveva, per il bene di tutti – erano limitate e spesso accusate di cedimento, se non di diserzione, dalla battaglia che doveva vedere tutti uniti.
L’Opera dei Congressi assumerà un grande rilievo e verso la fine del secolo potrà contare su 15 Comitati Regionali, 188 Diocesani e 4.029 Parrocchiali; la sua importanza è dovuta al fatto di comprendere una molteplicità di campi e di svolgere nello stesso tempo una funzione sia teorica e culturale (in particolare attraverso i suoi congressi), sia pratica e associativa.
Divisa in cinque Sezioni, la seconda aveva il compito di dedicarsi ai problemi economici e sociali, ma poiché nell’attività caritativa i cattolici avevano una presenza storica, così nella sezione per diversi anni fu prevalente l’attività assistenziale.
Spesso però questa attività assumeva risvolti sociali importanti; basterebbe pensare ai cosiddetti “santi sociali”, san Giovanni Bosco, san Luigi Orione, san Leonardo Murialdo, san Ludovico Pavoni, che, interessandosi dei ragazzi orfani e abbandonati, li istruivano e li avviavano al lavoro (e a volte anche alle organizzazioni operaie).
È solo verso la fine del secolo che si iniziano ad affrontare i problemi sociali che emergono in modo crescente dall’industrializzazione; con l’abolizione delle corporazioni, per liberalizzare il commercio e il lavoro, avvenuta nei vari Stati italiani nel Settecento (ancor prima della Rivoluzione Francese e della famosa legge Le Chapelier) non esistevano più norme che regolassero il lavoro e difendessero, sia pure con forme ormai antiquate, i lavoratori.
Un notevole impulso in questa direzione proviene dalla storica enciclica “Rerum Novarum” (1891), con cui Papa Leone XIII opera un inserimento della chiesa nel nuovo sistema capitalistico borghese e che rappresenta nello stesso tempo un riconoscimento dei pionieri delle organizzazioni cattoliche di lavoratori, generalmente nell’incomprensione e diffidenza generale, (soprattutto in Belgio, Germania, Francia, Austria) e il miglior sostegno all’avvio del movimento sociale cattolico.
L’ inizio è comunque timido, le attività tendono a rivolgersi a Società di Mutuo Soccorso, Casse Rurali, cooperative di lavoro e di consumo, asili d’infanzia, scuole professionali, corsi serali per operai e contadini, case popolari, mense, dormitori, in sostanza attività che non propongono contrasti di classe, come invece si presenta la realtà delle fabbriche, dove ci si scontra con problemi del tutto nuovi, con le logiche economiche, col padronato e spesso con le forze avverse dei socialisti.
Ma è proprio la presenza di questi ultimi, che vanno sempre di più conquistando le masse, che spinge i cattolici a impegnarsi nel mondo del lavoro: con molte paure e incertezze, discutendo all’infinito sulle forme organizzative, preoccupati più degli aspetti morali e religiosi che non dei problemi materiali dei lavoratori.
Un grande limite sarà costituito per un lungo tempo dalla pregiudiziale corporativa: respingendo l’idea della lotta di classe, i cattolici propugnavano invece la concordia e l’unione tra le classi e quindi proponevano le cosiddette “unioni miste” (composte congiuntamente da padroni e da lavoratori) preferendole alle “unioni semplici”, di soli operai.
Questa concezione fu affermata con forza sin dall’inizio; nel 4^ Congresso dell’Opera a Bergamo nel 1877, l’oratore per la questione sociale sostiene che “la migliore organizzazione del lavoro è appunto la corporativa, non più appoggiata a leggi coercitive, ma sostenuta dal concorso libero e spontaneo dei padroni e degli operai”. E nel convegno di Lucca del 1887 sul corporativismo si affermava: “il sindacalismo è imperniato sull’antagonismo di interessi e il corporativismo tende al superamento di tale antagonismo”.
Questa filosofia, chiaramente formulata a livello di principi dottrinali e del tutto avulsa dalla realtà (all’epoca l’operaio e il contadino erano considerati sudditi del signore), se non ha mai trovato nessuna pratica attuazione, ha però enormemente ritardato la realizzazione delle organizzazioni dei lavoratori.
Giuseppe Toniolo, il più autorevole degli studiosi cattolici sociali – a cui si deve un impegno tanto negli studi (preoccupato di introdurre tra i cattolici una maggiore attenzione agli studi scientifici) quanto nella realizzazione di associazioni e di opere – in occasione del Convegno di Milano dell’Unione Cattolica per gli Studi Sociali, che elaborò un “Programma dei cattolici di fronte al socialismo”(1894), proponeva a riguardo una soluzione pratica: le unioni dovevano essere miste, ma di fronte a un rifiuto dei padroni si potevano realizzare le unioni semplici (nelle parole del documento: “ se le classi superiori di proprietari e capitalisti ripugnino a entrare in sodalizi misti con le classi inferiori, in tal caso questi accettino che i lavoratori si stringano in unioni professionali esclusivamente operaie”). Era un chiaro escamotage per superare l’ostacolo.

La nascita della democrazia cristiana.

Nel frattempo, fra gli intransigenti emergeva una nuova generazione insofferente dell’atteggiamento sostanzialmente passivo, che era stata la costante linea dell’Opera dei Congressi, ed anche della eccessiva dipendenza papale per attività non religiose.
Queste nuove forze prendono il nome di democrazia cristiana; affermano la scelta per la democrazia e sostengono l’idea di una responsabilità autonoma dei cattolici sul terreno sociale e politico per affermare la propria visione della società, abbandonando con decisione gli schemi organicistici e gerarchici propri della cultura cattolica (e anche di Toniolo, al di là dei suoi molti meriti).
La concezione democratica consente loro di esprimere un’idea decisamente più moderna delle associazioni dei lavoratori, facendo fare un passo avanti importante alla questione sociale, in quanto sostengono la democrazia politica come condizione essenziale per la democrazia sociale.
Ma il Papa ritiene prematuri sia l’impegno politico sia la scelta per la democrazia (che è una forma possibile di governo fra le altre) e in una nuova enciclica, la “Graves de communi” (1901) esclude che si dia un significato politico alla locuzione ”democrazia cristiana”, mentre si può solo attribuirgli il significato di “una benefica azione a favore del popolo”.
Per una definizione esclusivamente sociale della democrazia si era espresso già in passato Toniolo “La democrazia nel suo contenuto essenziale può definirsi quell’orientamento civile nel quale tutte le forze sociali, giuridiche, economiche, nella pienezza del loro sviluppo gerarchico, cooperano proporzionalmente al bene comune rifluendo nell’ultimo risultato a prevalente vantaggio delle classi inferiori”.
Viene così ribadito ancora una volta che l’impegno dei cattolici deve svolgersi sul piano sociale (e trattandosi di un’enciclica, l’impegno riguarda tutti i cattolici), mentre rimangono fermi gli impedimenti ad operare in campo politico.
Sul piano politico, fra i cattolici democratici, l’ala più moderata rappresentata dal lombardo Filippo Meda, andava proponendo la formula “preparazione nell’astensione”, dando un carattere attivo alla proibizione (del resto proprio a Milano nel 1895 vi era stato un primo accordo elettorale fra vertici cattolici e liberali a livello comunale, per il quale non vigeva il divieto di partecipazione).
L’area democratica si afferma sempre di più all’interno dell’Opera dei Congressi e questo porterà a un aperto dissidio con l’ala tradizionalista: la Santa Sede, alla cui guida è ora Pio X, interviene d’imperio sciogliendo l’organizzazione (1904).
Successivamente Pio X promuoverà nuove strutture: l’Unione Popolare, l’Unione Economico- sociale e l’Unione Elettorale, cui seguirà l’Unione Femminile: organizzazioni molto centralistiche che rispondono al Sommo Pontefice e che a livello locale dipendono dal vescovo.
I democratici cristiani, che intanto avevano dato vita a una propria associazione, la Lega Nazionale, entrano in conflitto con questa impostazione ed il loro maggior rappresentante, Romolo Murri, giungerà sino alla rottura, cui seguirà la scomunica.
La Lega rimarrà, ma naturalmente molto ridotta, assicurando totale obbedienza alla chiesa sul piano religioso e rivendicando invece libertà di opinione in campo politico, non di competenza ecclesiale.
Alla crisi dell’Opera si aggiunse in quegli anni la crisi modernista, cioè la tendenza sostenuta da intellettuali e da alcuni sacerdoti favorevoli a recepire istanze scientifiche nello studio della Bibbia e della dottrina cattolica e vista come un grave e insidioso pericolo da parte dell’autorità della Chiesa: da qui una dura battaglia nei confronti dei modernisti, una vera e propria repressione, che si estendeva facilmente, con l’arma subdola del sospetto, nei confronti di coloro che venivano considerati “modernizzatori”, determinando un clima tutt’altro che favorevole al rinnovamento.

Lo sviluppo delle associazioni operaie cattoliche.

Queste vicende determinarono un nuovo freno all’impegno sociale nei confronti dei lavoratori che, invece, si presentava sempre più urgente per via della crescita industriale e dell’emergere dei problemi connessi (lavoro delle donne e dei fanciulli, infortuni sul lavoro, disoccupazione, salari ).
Nell’Assemblea dell’Unione Economico-sociale del 1907 a Bergamo (dove aveva sede) il Presidente, conte Medolago Albani, illustra un resoconto delle realizzazioni: 1.135 Società di Mutuo Soccorso, 1.303 Casse rurali, 90 Banche, 485 Circoli popolari, 336 Cooperative, 298 Unioni agricole, 59 Affittanze collettive, però solo 135 Organizzazioni di lavoratori (in calo rispetto all’anno precedente, quando erano 185).
Qualche anno dopo, alla Settimana Sociale di Assisi nel 1911, una relazione di Mario Chiri, cattolico dell’Ufficio Centrale del Lavoro, fornisce i dati statistici ufficiali delle organizzazioni di lavoratori, del loro numero e dei loro iscritti: al 1^ gennaio 1910 i lavoratori organizzati ammontano a 817.034, di cui 496.748 aderenti alle Camere del Lavoro e alle Federazioni di mestiere collegate, mentre i restanti 320.286 aderiscono a organizzazioni sindacali indipendenti (fra questi 104.614 sono i cattolici, di cui 67.466 nell’industria, soprattutto tessile, e 37.148 in agricoltura).
Complessivamente le unioni cattoliche sono 374: solo 4 hanno nel loro statuto l’eventualità di essere “miste”, senza comunque avere soci padroni; in molti casi è prevista la confessionalità, però in genere non è richiesta come condizione di ammissione, mentre in altri casi è prevista la possibilità di espulsione per questo motivo.
Quella della “confessionalità” è un altro problema serio che si è proposto sia sul piano dei principi, che nella pratica: dovendo operare tra gli operai per i problemi concreti di lavoro si doveva dichiarare esplicitamente il carattere cattolico dell’associazione o ci si poteva presentare con denominazioni più laiche per potersi rivolgere a una platea più vasta, assicurando sempre comunque il rispetto dei principi morali e religiosi?
A una domanda esplicita in tal senso rivolta al Papa, la risposta di Pio X fu netta: occorre affermare assolutamente la confessionalità, in caso contrario si dimostrerebbe paura e rassegnazione a manifestare la propria fede.
La motivazione di questa posizione papale derivava dal modo di considerare la natura delle associazioni operaie: per il Papa, pur trattandosi di organizzazioni professionali, il loro scopo primo doveva essere quello religioso e morale, mentre nella realtà le associazioni operaie erano portate ad affrontare i concreti problemi di lavoro (nelle parole del Papa: ”La questione sociale è principalmente morale e religiosa e perciò va risolta principalmente secondo le leggi morali e religiose”).
Nei primi anni del secolo sorgono anche i primi sindacati cattolici di categoria: tessili (una categoria dove i cattolici sono forti grazie alla presenza maggioritaria delle donne), ferrovieri, meccanici e soprattutto contadini (ma pochi salariati): per avere una Confederazione sindacale cattolica occorrerà aspettare il 1918.
Sciolta l’Opera dei Congressi si poneva l’esigenza di risolvere in altro modo il problema della diffusione del pensiero cattolico nella società moderna; si diede pertanto vita, su esempio di quanto avveniva in Francia, alle Settimane Sociali dei cattolici, la prima delle quali fu realizzata a Pistoia nel 1907 sul tema del lavoro; seguirono altre con una scadenza in genere annuale, in varie città e su temi diversi (l’agricoltura, il meridione, la visione cristiana della questione sociale, ecc..).
Questo progressivo sviluppo del movimento sociale cattolico, come si è visto, ha sempre incontrato seri ostacoli e in diversi casi anche una vera opposizione: basti citare in proposito gli articoli che, ancora nel 1914, scriveva l’autorevole “Civiltà Cattolica” contro l’idea di sindacalismo e in particolare del sindacalismo cristiano.

La contrastata evoluzione politica dei cattolici

Se l’esperienza citata dei cattolici democratici fu relativamente breve, ebbe certamente il merito di introdurre il concetto fondamentale di democrazia e l’idea del contributo autonomo dei cattolici in politica (anche se ancora in una forma molto clericale), questioni che saranno alla base della successiva opera di don Sturzo.
Intanto il crescere delle forze socialiste creava profonda preoccupazione sia tra le forze liberali al potere, sia tra i cattolici che si trovavano di fronte a una costante erosione della loro base popolare; così per i cattolici il nemico principale non era più costituito dai liberali, mentre questi, di fronte alla paura di perdere il potere, si mostravano sempre più disposti ad attenuare le loro posizioni anticlericali.
Di conseguenza, già nelle elezioni del 1904, pur senza togliere il “non expedit”, fu concesso ai cattolici di partecipare al voto, in situazioni determinate dove era possibile un accordo coi liberali, con l’autorizzazione del vescovo locale.
L’esperimento si ripeté più ampiamente nelle elezioni del 1909, ma fu soprattutto nelle elezioni del 1913 che l’accordo assunse una dimensione nazionale pubblica; i cattolici votarono non solo per dei propri candidati, ma per molti liberali, purché sottoscrivessero una dichiarazione in sette punti, per la verità molto blanda: si tratta del famoso Patto Gentiloni.
Dopo quaranta anni di astensionismo, non era certo per i cattolici il modo migliore di entrare in politica, senza una propria identità e un proprio programma, in una mescolanza indistinta coi liberali, che avevano a lungo combattuto come il male assoluto.
L’ inimicizia e il contrasto ideologico che per tanto tempo avevano diviso cattolici e liberali – causando senza dubbio un forte ritardo nello sviluppo civile ed economico del paese – veniva eliminato di colpo, quasi magicamente, di fronte al pericolo socialista considerato da entrambi ben più grave.
L’avvento della guerra e la morte di Pio X porteranno a un grande cambiamento della situazione: i cattolici, che a lungo erano rimasti separati e in disparte, con la partecipazione alla guerra, si sentono e vengono sentiti come parte della nazione e l’atteggiamento del nuovo Papa Benedetto XV, molto più aperto, porta finalmente all’annullamento delle passate proibizioni, consentendo dunque ai cattolici di partecipare “liberamente” alle elezioni.

La prima esperienza politica autonoma dei cattolici, il PPI.

Appena finita la guerra, don Luigi Sturzo assunse tempestivamente l’iniziativa di promuovere un partito di ispirazione cattolica, ma non esplicitamente cattolico.
Sturzo aveva una notevole esperienza di studio e di partecipazione alla vita politica e associativa: aveva frequentato la prima Democrazia Cristiana e l’aveva diffusa in Sicilia, si era poi dedicato all’amministrazione comunale e infine era stato nominato Segretario Generale della Giunta dell’Azione Cattolica, avendo così l’occasione di tessere rapporti a livello nazionale.
Il suo progetto di partito, elaborato con cura, era decisamente innovativo: si presentava aconfessionale perché si rivolgeva ai cattolici, ma chiedendo l’adesione a un programma esplicitamente democratico, dunque non a tutti i cattolici in quanto tali.
Il partito aveva un programma nazionale con cui confrontarsi con gli altri partiti; nel programma il problema della libertà e indipendenza della chiesa era inserito all’ottavo posto, mentre i problemi ecclesiastici erano lasciati all’autorità religiosa (compresa la questione romana, sempre presente, ma non più esclusiva e pregiudiziale).
Sturzo illustra le linee del suo programma il 17 novembre 1918 a Milano, il 23 novembre riunisce a Roma un gruppo di politici cattolici per concordare gli inizi, il 18 gennaio 1919 pubblica l’appello ai liberi e forti e il programma in dodici punti.
Aveva naturalmente chiesto il beneplacito del Vaticano che l’aveva accordato grazie agli orientamenti di Papa Benedetto XV, consapevole che si doveva chiarire la confusione esistente nelle associazioni cattoliche tra religione e politica (ciò che Sturzo chiamava “ibridismo” e che intendeva appunto superare, per il bene sia della politica che della religione).
Immediatamente dopo viene sciolta l’Unione Elettorale e più tardi anche quella Popolare (associazioni “ibride”); in questo modo l’Azione Cattolica veniva riportata alla sua funzione religiosa e di apostolato.
Le prime elezioni avvengono il 16 novembre 1019; solo qualche giorno prima, il 12 novembre, veniva finalmente abolito, dopo cinquanta anni, il “non expedit”.
Il PPI prende oltre il 20% dei voti e 100 seggi, i socialisti il 35% e 156 seggi; il rimanente 45% va alle diverse forze liberali, che, complessivamente, non hanno più la maggioranza.
È il successo a causare i problemi di tutti quegli anni ai popolari: i liberali hanno bisogno dei voti cattolici per governare, ma li guardano con disprezzo e supponenza; per loro si tratta di uomini di chiesa, clericali, arretrati; la loro mentalità laica è più vicina ai socialisti. Le divergenze e le diffidenze non consentono un’intesa.
Ma nelle incertezze e debolezze dei vari governi e nella convinzione presente fra i liberali che i fascisti svolgessero un ruolo positivo (contrastando i socialisti), si lasciano crescere le violenze fasciste; anche ai popolari veniva chiesto di sostenere governi in cui sarebbero stati presenti i fascisti.
Il risultato finale fu la marcia su Roma e la salita al potere di Mussolini a cui, in un primo momento, anche i popolari diedero la loro “fiducia condizionata”.
Ma Mussolini, presentandosi come un difensore della religione in grado di risolvere anche la questione romana, fece pressione sul Vaticano per dimostrare che il PPI era più un ostacolo che un aiuto e, fra minacce e promesse, chiese che Sturzo fosse estromesso.
Intanto le decisioni del Governo diventavano sempre più autoritarie, sino alla cancellazione nel 1926 di tutti i partiti, PPI compreso, che concluse così la sua esperienza.
Il PPI, una felice elaborazione di Sturzo, durò pochi anni a causa delle violenze fasciste e dell’inconcludenza di una classe liberale oramai allo sfacelo.
Molto si parla dell’accordo che sarebbe potuto avvenire tra le due forze popolari, i cattolici e i socialisti, ma anche se non sono mancati incontri e confronti, le distanze ideologiche e reali erano troppo profonde e in ognuno dei due schieramenti esistevano gruppi di irriducibili che avrebbero impedito a ogni costo tale intesa.
Occorre infine dire che, se l’intuizione di Sturzo era valida, la maggioranza dei cattolici e anche dei deputati del PPI non era pronta a comprendere e condividere la scelta dell’autonomia (e niente della storia passata li aveva preparati a questo): ci fu dunque una radicata debolezza interna che non resse all’urto delle forze avverse.

La confederazione sindacale cattolica, la CIL.

Ancor prima della nascita del partito, sorgeva a Roma nel marzo 1918, per opera di Gianbattista Valente, che aveva intessuto rapporti con vari dirigenti sindacali locali e di federazioni anche durante la guerra, la Confederazione Italiana dei Lavoratori, la confederazione sindacale “bianca”.
La CIL non solo è aconfessionale (ciò che le attira le inevitabili critiche dei clericali conservatori), ma anche intende qualificarsi con un “carattere nettamente professionale e tecnico-economico”.
In altre parole, dichiara di volere mantenere la propria azione sul piano strettamente sindacale, mantenendo buoni rapporti col partito, ma in piena autonomia, essendo diversi i campi d’impegno.
I promotori avevano certamente presente il modello socialista di stretta dipendenza del sindacato dal partito e volevano allontanare ogni tendenza del genere.
Essendo ancora in vigore le vecchie norme dell’associazionismo cattolico, la CIL viene considerata come sezione dell’Unione Economico-sociale, ma il presidente dell’Unione non solo è favorevole all’indipendenza del sindacato (peraltro condivisa dal Sommo Pontefice, Benedetto XV), ma costituisce pure la Confederazione Cooperativa Italiana (che congloba tutte le cooperative) e la Federazione Nazionale Mutualità e Assicurazioni Sociali come organismi indipendenti.
Gianbattista Valente è il primo Segretario Generale per circa due anni (dimissionario per un intervento di Sturzo che voleva un sindacato più legato al partito, il quale aveva bisogno di un sostegno popolare; è da vedere in questo un problema pratico, non un differente modello teorico di rapporti partito-sindacato), sostituito da Giovanni Gronchi per il periodo 1922-24 e poi da Achille Grandi fino alla chiusura del 1926.
Il programma della CIL, oltre alle rivendicazioni sociali, comprende il rifiuto sia del collettivismo che del capitalismo a sostegno di un modello di società in cui prevalga il lavoro autonomo e una forma di controllo dei lavoratori sui propri strumenti di lavoro, mentre rinvia al futuro la questione del corporativismo, quando la situazione sarà più matura.
La CIL non solo trova spesso difficoltà negli ambienti cattolici (si tratta pur sempre di un’organizzazione di classe!), ma anche una dura opposizione da parte del sindacato socialista, che pretendeva di avere il monopolio della rappresentanza dei lavoratori; sono molti i casi in cui gli operari socialisti si oppongono alla presenza di lavoratori cattolici della CIL, soprattutto nel 1920 (poi arriveranno le squadracce fasciste e il nemico sarà un altro).
La CIL non parteciperà all’occupazione delle fabbriche (1919-20), risolta da Giolitti con un accordo che al momento sembrava valido, ma che poi nei fatti verrà disatteso; la situazione invece diventa un pretesto per il diffondersi delle forze fasciste che, appoggiate dagli industriali e dagli agrari, prendono di mira, coi loro mezzi violenti, prima i socialisti e poi i cattolici.
Nel 1920 gli aderenti alla CIL giungono fino alla cifra di due milioni, ma nel settore agricolo che costituiva i due terzi della forza, venivano contate anche le famiglie; nell’industria solo il settore tessile presentava una presenza ragguardevole (130.000 iscritti), seguivano i ferrovieri (24.000), i metallurgici (15.000), i lavoratori del legno (12.000), e gli edili (8.000). Qualche seguito la CIL raccoglieva anche tra gli impiegati.
La forza sindacale doveva ancora molto all’azione della chiesa: dove il vescovo e i parroci erano d’accordo (ad es. in Veneto) le unioni crescevano, viceversa quando erano contrari; spesso erano gli stessi parroci a prendere l’iniziativa.
Grazie alla forte presenza nel settore agricolo, si devono alla CIL due importante accordi, uno nel Veneto ad opera di Giuseppe Corazzin (che morirà giovane anche per un pestaggio dei fascisti) e il lodo Bianchi realizzato da Guido Miglioli nel cremonese: entrambi i patti furono presto vanificati e annullati dalla prepotenza degli agrari e dei fascisti.
Solo con la violenza fisica i fascisti piegarono le organizzazioni sindacali socialiste e cattoliche: dal 1921 al 1922-23 i socialisti passano da 2.300.000 aderenti a 500.00. i cattolici da 1.500.000 a 140.000, mentre il sindacato fascista inesistente nel 1920, registra 450.000 iscritti nel 1921 e 900.000 nel 1922-23, diventando il primo sindacato.
Gli interventi repressivi, sia attraverso i prefetti che chiudevano sedi e associazioni, sia attraverso normative sempre più soffocanti, rendono praticamente impossibile la vita sindacale.
Infine, l’accordo di Palazzo Vidoni dell’ottobre 1925 sancisce che i sindacati fascisti sono gli unici rappresentanti riconosciuti dei lavoratori e la legge sulla “unicità sindacale” dell’aprile 1926 pone fine alla possibilità di svolgere qualunque attività utile.
Grandi, rimasto alla guida della CIL fino all’ultimo, vorrebbe salvare almeno la possibilità di mantenere in vita l’organizzazione per svolgere un’attività formativa, ma la Giunta dell’Azione Cattolica, col consenso del Papa, dichiara superflua la CIL, accentrando nell’ICAS (Istituto Cattolico Attività Sociali), un ufficio della stessa Azione Cattolica, ogni attività sociale.
L’ICAS, in mano ai conservatori clericali, si guarderà bene dallo svolgere una qualunque attività sociale, per non disturbare il regime.

La Chiesa e i cattolici durante il fascismo.

Mussolini, che aveva sempre manifestato un’esplicita concezione anticlericale e anticristiana (e con lui l’intero movimento fascista), nel suo primo discorso alla Camera il 21 giugno 1921, cambia radicalmente posizione, elogiando l’universalismo cattolico, causa della grandezza di Roma.
Non si tratta certo di un’affermazione religiosa, ma è evidente l’intenzione di iniziare un avvicinamento.
Progressivamente Mussolini, giunto al potere, si preoccupa di cancellare il PPI, mentre lusinga la Chiesa con dichiarazioni e promesse che lasciano intendere la possibilità di uno Stato che riconosca il ruolo della religione cattolica.
Così una larga parte della Chiesa, a partire dai vertici, si convince della possibilità di una “restaurazione”, cioè di un ritorno a uno “Stato cattolico”; per questo il rapporto ritorna a stabilirsi ai massimi vertici, tra Stato e Chiesa, tra il capo dello Stato da una parte e il capo della Chiesa dall’altra, senza intermediari, senza bisogno di partiti, rappresentanti parziali non adatti al compito.
Fra molte difficoltà, scontri, sospensioni, dovuti alle frequenti intemperanze e violenze fasciste, si avviano anche i negoziati per affrontare la questione romana: il Vaticano, nel frattempo, ha maturato la convinzione che, al Trattato rivolto a regolare la questione di un territorio che garantisca l‘indipendenza del Pontefice (magari con un riconoscimento internazionale di garanzia), sia opportuno unire anche un Concordato per definire i molteplici problemi della presenza della chiesa in Italia (parrocchie, matrimoni, educazione religiosa, scuole, enti religiosi associazioni, attività assistenziali, ecc.).
Se allo Stato fascista interessa soprattutto il Trattato, alla Chiesa, che ora si accontenta di un territorio minimo, interessa sempre di più il secondo, perché si tratta della sua presenza e della sua possibilità di influenza nella realtà italiana.
Ma immediatamente dopo, nel 1931, anche per soddisfare i molti malcontenti all’interno del proprio partito, Mussolini scatena una battaglia contro l’associazionismo cattolico, decretando la chiusura delle organizzazioni giovanili, perché l’educazione “virile” dei giovani è compito dello Stato fascista, attraverso una propria struttura, l’Opera Nazionale Balilla.
Dura è la reazione del Sommo Pontefice che nell’Enciclica “Non abbiamo bisogno” difende le associazioni cattoliche, sostenendo che le accuse di essere ostili al partito fascista e di svolgere attività politica è soltanto un pretesto e come sia inaccettabile pensare che la Chiesa possa rinunciare a formare i giovani nel campo spirituale.
Il risultato dello scontro sarà una mediazione, che salva l’Azione Cattolica (800.000 iscritti con 5.000 associazioni maschili e 8.000 femminili), rinunciando per forza ad altre.
Una parte della chiesa era sostanzialmente favorevole al fascismo, ritenendo che si trattasse solo di cristianizzarlo progressivamente; in occasione della guerra in Etiopia e ancor più con la guerra di Spagna, diversi cardinali benedicono le bandiere e formulano discorsi inneggianti alla diffusione della civiltà cristiana (ma non era la posizione della Santa Sede).
Il tacito consenso passivo diffuso inizierà a entrare in crisi con l’occupazione tedesca dell’Austria (paese cattolicissimo, mentre la Germania ostentava posizioni pagane) e ancor di più con le successive leggi razziali, anche queste di origine germanica; qui inizia a manifestarsi un chiaro dissenso morale.
La Chiesa prende atto che, al di là delle apparenze e delle concessioni, l’animo fascista è un animo pagano, profondamente lontano dai valori religiosi, e questo provoca un allontanamento anche di molti cattolici da un regime sinora subito o accettato senza tanti problemi.
Le ultime posizioni del Papa sono sempre più apertamente critiche rispetto al regime: di grande rilievo l’enciclica “Mit brennender sorge” (Con viva ansia) con cui condanna l’ideologia nazista perché eleva lo Stato, il popolo, la razza, che sono valori naturali, “a suprema norma di tutto, anche dei valori religiosi, e divinizzandoli con culto idolatrico, perverte e falsifica l’ordine da Dio creato”: la critica è rivolta alla Germania, ma l’Italia è la sua stretta alleata.
Poiché durante il regime è praticamente impossibile ogni opposizione, il massiccio impegno formativo dell’Azione Cattolica, non costituisce solo un fatto interno alla chiesa: questa educazione, basata su principi ideali e morali, costituirà una grande forza di critica al regime, quando questo assumerà posizioni umanamente condannabili.
Così l’impegno migliore dei cattolici non va ricercato in un’opposizione necessariamente limitata (si può ricordare il movimento “guelfo” di Milano), ma piuttosto in questa formazione di massa della gioventù, che costituirà una preziosa risorsa al momento della crisi e caduta del fascismo, e inoltre nella costituzione di gruppi intellettuali che iniziano a ragionare sul futuro (il gruppo della Fuci e del Movimento Laureati, con Mons. Montini e Igino Righetti, e il gruppo dell’Università Cattolica, da cui provengono Dossetti, Lazzati, Fanfani).

I cattolici, la guerra e la resistenza.

Se la metà degli anni ’30 rappresenta l’apogeo del fascismo (per i successi ottenuti in Etiopia e in Spagna), la fine degli stessi anni segna l’inizio della sua rapida caduta.
Quando Hitler avvia la sua azione di conquista, prima con l’annessione dell’Austria e della Cecoslovacchia e poi con l’invasione della Polonia e della Francia, Mussolini, pur sapendo che l’esercito italiano non era pronto, decide di entrare in guerra, prima in modo limitato in Francia poi più decisamente in Grecia e in Africa, nella speranza di annettersi qualche territorio.
Data l’impreparazione e la scarsa attrezzatura, la guerra in Grecia si rivela un disastro e così quella africana; a metà del 1942, inoltre, è chiaro che le sorti della guerra stanno volgendosi in peggio per le forze tedesche e italiane.
Fu in larga misura l’esperienza della guerra che convinse la gran parte della popolazione ad abbandonare il fascismo: era una guerra espansionistica, senza giustificazioni, la disorganizzazione aveva provocato tante vittime e sofferenze superflue, era causa della dura occupazione tedesca.
Il regime crolla il 24 luglio 1943 per una crisi interna dovuta all’approssimarsi della disfatta: all’inizio del mese era avvenuto lo sbarco alleato in Sicilia, che si ripeterà in gennaio 1944 ad Anzio, anche se Roma sarà liberata solo in giugno; il governo Badoglio, succeduto a Mussolini, firmerà l’armistizio l’8 settembre 1943.
Sono questi avvenimenti che rimettono in movimento una situazione bloccata da venti anni; da una parte si sviluppa la resistenza partigiana, una delle pagine più belle della nostra storia, dall’altra si riprendono contatti e rapporti politici per prepararsi al momento della conclusione bellica.
La resistenza fu indubbiamente un fenomeno popolare di massa, cui parteciparono una pluralità di forze: i comunisti (certamente i più organizzati, con la Brigate Garibaldi), i socialisti, Giustizia e Libertà, i militari fedeli alla monarchia e i cattolici.
I cattolici furono presenti con proprie brigate: la Divisione Di Dio, le Fiamme verdi, le Brigate del Popolo, la Osoppo e poi con molti singoli inseriti in brigate diverse, a seconda del territorio di appartenenza.
Ma la partecipazione cattolica va vista in modo più ampio perché un numero considerevole di sacerdoti (e a volte di vescovi), di suore e di laici aiutarono la resistenza in vari modi: ospitando i partigiani nelle canoniche e nei conventi, aiutando la fuga di ebrei ricercati, nascondendo armi e documenti, provvedendo a far arrivare informazioni, insomma si verificò una vasta solidarietà naturale e spontanea che costituì un essenziale supporto per la resistenza.
Questa partecipazione alla resistenza, comune tra cattolici ed altri gruppi di diversa concezione, rappresentò un forte fattore di amalgama nella lotta e servì a stabilire rapporti di fiducia che avrebbero poi contato nel dopoguerra.
Così la fine del fascismo prima e della guerra dopo, portano a una situazione del tutto nuova nella società italiana; a differenza dell’altra guerra, quando le forze popolari si trovarono divise, questa volta le forze popolari provengono da un’esperienza unitaria, quella della resistenza, che oltre ad aver avuto un ruolo decisivo nella lotta, rappresenta una solida base per la futura democrazia ed è portatrice di una grande volontà di rinnovamento sociale.

I cattolici e la ricostruzione della democrazia italiana.

Alla caduta del fascismo e durante la resistenza si intrecciano i rapporti per ridare vita ai partiti politici, sia tradizionali che nuovi, rispondenti alla mutata situazione.
Anche i cattolici si interrogano: accanto ai vecchi popolari, sono ora presenti altri gruppi, tra cui i Guelfi, gli studiosi provenienti dalla Fuci e dall’Università Cattolica, i quadri che si sono formati nella resistenza.
Sarà De Gasperi, l’ultimo Segretario del disciolto PPI, a prendere l’iniziativa di aggregare gradualmente queste forze; a Roma, dove lavora presso la Biblioteca Vaticana, ha maggiore libertà di manovra e ha sia l’autorità che la competenza per assumere questo ruolo, stendendo anche un primo programma di confronto (“Idee ricostruttive”).
Da questo lavoro di assiemaggio nascerà la Democrazia Cristiana, che richiama la prima esperienza politica dei cattolici e che, già nel nome, si differenzia dall’esperienza popolare.
L’affermazione della Democrazia Cristiana non fu facile, perché esistevano altri gruppi cattolici concorrenti (la sinistra cristiana e i cristiano-sociali), ma soprattutto perché nella gerarchia erano largamente presenti tendenze conservatrici e tradizionalistiche.
Fu soprattutto la paura del pericolo comunista che fece decidere per un partito che riunisse tutti i cattolici al fine di costituire un unico grande fronte democratico.
Così il partito che nacque dovette la sua forza e la sua presenza nella società non alla propria autonoma iniziativa, ma bensì alla radicata e capillare organizzazione della chiesa cattolica.
L’obiettivo di De Gasperi era l’affermazione e lo sviluppo della democrazia nel paese e in questo ebbe certamente ragione e merito, però il condizionamento ecclesiale nel tempo ha poi costituito il vero motivo della crisi del partito.
Mentre man mano veniva meno l’omogeneità del voto cattolico e l’autorità della chiesa in materia, la Democrazia Cristiana non seppe superare questo periodo di appoggio ecclesiale che andava estinguendosi, cercando di unire gli elettori su un programma all’altezza del tempo (come era stata invece l’idea costitutiva del partito di Sturzo).

Sul fronte sindacale, mentre ognuno cercava di ricostruire le proprie fila, si sviluppò subito l’incontro tra i diversi gruppi ideologici presenti a livello di massa (comunisti, socialisti, cattolici) che, nel giugno del 1944, firmarono il Patto di Roma, l’accordo di unità sindacale.
Si costituiva così un unico sindacato, la CGIL, di contro ai molti esistenti prima del fascismo: nei Congressi le votazioni avvengono per liste ideologiche e le rappresentanze negli organismi è proporzionale ai voti raccolti (al Congresso del 1947 i voti erano i seguenti: comunisti 55,82%, socialisti 22,61, cattolici 13,45, seguono socialdemocratici, repubblicani, anarchici, azionisti e indipendenti).
Così i comunisti, anche da soli, avevano la maggioranza nel Consiglio generale; se poi si tiene presente l’alleanza organica allora esistente coi socialisti, il loro dominio era schiacciante.
Le forti tensioni internazionali (lo scontro Occidente – Russia, destinato a durare a lungo) quanto quelle interne (il continuo ricorso allo sciopero politico per infiniti motivi, sino a quello generale per l’attentato a Togliatti) portano alla rottura dell’unità nel 1948.
La corrente cristiana, in un primo momento Libera CGIL, maturò presto l’idea di non formare un sindacato cristiano, ma di dar vita a un sindacato democratico, la CISL: si trattava di una scelta avanzata per l’epoca, in controtendenza a quella fatta a livello di partito, e con qualche analogia alla scelta di Sturzo in campo politico.
La nascita della CISL merita di essere richiamata perché, grazie a uno studioso lungimirante, il prof. Mario Romani dell’Università Cattolica, fu in grado di presentarsi con una concezione nuova del sindacato, minoritaria all’epoca per via della presenza comunista, ma destinata ad avere un ruolo determinante nel futuro: l’autonomia, la contrattazione aziendale, la partecipazione, la concertazione col potere pubblico, diventeranno gli elementi caratterizzanti del sindacato italiano.
Dunque, in campo sindacale, i cattolici hanno saputo dare un apporto di carattere originale e hanno anche saputo lottare per questo, incontrando molte resistenze e ostilità non solo da parte degli avversari, ma spesso anche dal mondo cattolico, sempre riottoso a comprendere il conflitto industriale e le logiche della moderna realtà economico-sociale.

Nel campo del lavoro i cattolici hanno dato vita ad un’altra importante associazione, le ACLI: esse sono nate dalla convinzione che, avendo i cattolici realizzata l’unità sindacale in una condizione di minoranza, fosse necessaria una vasta azione formativa e di preparazione di quadri.
Ma una volta avvenuta la divisione sindacale e realizzata la nuova Confederazione, veniva di fatto a modificarsi il suo ruolo, da organizzazione formativa di supporto alla corrente cristiana a movimento sociale cattolico.
Operando nel mondo cattolico e continuando a svolgere attività formativa accanto a una molteplicità di iniziative sociali (patronato, casa, formazione professionale, vacanze per i lavoratori), le ACLI divennero un’organizzazione significativa, con una forte presenza a livello locale.
Le ACLI furono spesso tra i protagonisti del rinnovamento, a favore di scelte che venivano ritenute mature, come la scelta del centrosinistra, cui si opponeva larga parte del partito e anche della gerarchia.
Un momento di forte tensione con la chiesa avvenne a proposito della “scelta socialista”; in un convegno a Vallombrosa le ACLI affermarono che la scelta socialista era legittima e auspicabile; a questo, poco tempo dopo, seguì la decisione di un gruppo di dirigenti di mettersi in politica, dando vita a un proprio partito, il Movimento Politico dei Lavoratori.
Ne derivò una rottura dei rapporti con la Conferenza Episcopale Italiana (CEI) che tolse alle ACLI il riconoscimento formale di associazione cristiana (carattere che rimane come scelta propria).
Le ACLI sono ora un’organizzazione cristiana autonoma che opera nel sociale, dove svolge un’azione importante (anche qualitativamente).
La D.C., la CISL e le ACLI sono le tre grandi organizzazioni democratiche sociali che si sono formate nel dopoguerra (prescindendo da organizzazioni spesso di grande rilievo, ma più settoriali, come i coltivatori diretti o i maestri elementari): ne abbiamo richiamato la nascita e i problemi “originari” ad esse connessi; passare a illustrare il loro sviluppo significherebbe scrivere molte pagine di storia contemporanea, che è opportuno rinviare ad altra sede.

Conclusioni.

L’esperienza democratica e sociale dei cattolici, che abbiamo descritta, si presta a molte riflessioni. In questa sede ci limitiamo necessariamente a poche considerazioni essenziali.
Il veto fatto ai cattolici di partecipare alle elezioni politiche ha dirottato le loro energie verso l’impegno sociale.
Ma queste attività sociali, sotto l’insegna dell’Opera dei Congressi, tipica organizzazione intransigente che faceva della causa papale il fine supremo, sono sempre rimaste in un campo tradizionale, assistenziale e caritativo, svolte da associazioni in cui il primato era riservato alla formazione religiosa.
Anche quando si iniziò a interessarsi di lavoratori, si diede vita a opere aconflittuali, lontane dalle fabbriche, ritenute luoghi di divisione sociale e di scontri ideologici.
Quando finalmente si darà vita a unioni di lavoratori, a lungo si sosterrà il loro carattere misto, corporativo, di lavoratori e padroni insieme, frenandone così lo sviluppo.
Va anche richiamato che questa nascita del “sociale” separato dal politico è rimasta come un problema originario, causa non ultima dell’eterna difficoltà di passare dal sociale al politico.
Va poi ricordato che, ancora nel 1914, l’autorevole “Civiltà Cattolica” condannava il sindacalismo come antitetico alla dottrina cristiana, perché divideva le classi mentre il cristianesimo le univa.
La Confederazione Italiana del Lavoro (CIL) nascerà solo nel 1918, mentre la Confederazione Generale del Lavoro (CGL) socialista era nata nel 1906 e le Camere del Lavoro erano sorte a partire dal 1906; ciò a dimostrazione del ritardo con cui i cattolici si sono impegnati tra i lavoratori.
La dottrina di queste associazioni era quella della Rerum Novarum di Leone XIII (la Quadragesimo Anno arriverà solo nel 1931, durante il fascismo) con un grande fraintendimento: la dottrina sociale della chiesa fornisce un quadro morale di riferimento, ma non è un programma sociale e non rappresenta la concezione sociale di un sindacato o di un’associazione.
Ciò che è mancato in campo sociale è stato un pensiero (e dei pensatori) in grado di esprimere un programma storico concreto all’altezza dei tempi.
Giuseppe Toniolo che ha avuto il grande merito di spingere i cattolici a studiare i problemi sociali, è espressione di un’altra epoca, la cui visone è una società cristiana organica gerarchica con a capo la chiesa e il papa.
I sindacalisti, Gianbattista Valente e Achille Grandi, sono stati dei bravi sindacalisti che hanno fatto il loro mestiere, contratti, rivendicazioni, assemblee, scioperi: chiedere loro di essere dei pensatori sociali è chiedere troppo.
Dunque, il contributo che il cattolicesimo sociale ha dato – e che continua a dare anche oggi – va visto soprattutto nell’impegno nelle opere, nell’azione concreta, ma rimane il problema di possedere un pensiero sociale che esprima tutta la ricchezza di questo impegno e riesca a fargli assumere la sua rilevanza politica.

Se ci rivolgiamo poi al campo del cattolicesimo democratico, i progressi sono stati necessariamente lenti, data l’impossibilità di fare politica in modo diretto.
Però il lavoro politico è eminentemente un lavoro intellettuale e le idee non sono mancate e man mano sono cresciute e hanno dato frutti.
Un primo caso da ricordare è certamente quello di Romolo Murri perché, al di là delle sue travagliate vicende umane, ha avuto il merito di introdurre il termine “democrazia cristiana”, sostenendo l’autonomia dei cattolici in materia politica e l’obbedienza alla chiesa nelle questioni religiose.
Ma, mentre con Murri ci si trova ancora nel campo delle idee, con Luigi Sturzo invece si realizza la prima esperienza autonoma dei cattolici in politica, anche se con una base cattolica molto conservatrice, che non reggerà la prova.
Diversa è l’esperienza di De Gasperi, il cui scopo è l’affermazione e il consolidamento della democrazia nel paese; ma l’apporto della chiesa è stato in questo caso tanto decisivo quanto soverchiante, col richiamare i cattolici all’obbligo di votare la Democrazia Cristiana.
Quando questo supporto è venuto meno, è venuta meno anche la Democrazia Cristiana, incapace di esprimere un programma su cui chiedere il consenso.
Le esperienze del cattolicesimo democratico sono dunque varie (anche senza entrare nel più vasto campo delle idee) e questo dimostra come non esista un unico modello, un’idea unica di cattolicesimo democratico, che si tratterebbe solo di ripetere nel tempo.
Il cristianesimo democratico è piuttosto uno spirito, una tendenza, che occorre saper concretizzare, tradurre, incarnare nelle diverse epoche e situazioni, ogni volta in modo specifico e diverso.
Il problema oggi è dunque questo: non si è ancora individuata una proposta di cattolicesimo democratico da realizzare per il nostro tempo o, in altre parole, per usare il linguaggio di Maritain, siamo privi di un “ideale storico concreto”.
Da qui, da questa consapevolezza, parte oggi il compito del cattolicesimo democratico e sociale.


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