Dispensa di cultura e formazione politica n.2

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  1. Rappresentanti e rappresentati.

Fra i molti problemi attuali della democrazia, quello che maggiormente emerge e presenta un’evidente criticità sembra essere costituito dal profondo distacco che si avverte tra rappresentanti e rappresentati, tra gli eletti e gli elettori; a cui si collegano, come conseguenza, la disaffezione politica, l’assenteismo e la critica alla casta.

Lo esprime fra gli altri, autorevolmente, Norberto Bobbio, uno dei più riconosciuti filosofi politici italiani “Ora la democrazia deve vincere una nuova sfida… tra le quali, principalissima, l’inversione del rapporto fra controllori e controllati, per cui, attraverso l’uso spregiudicato dei mezzi di comunicazione di massa, ormai gli eletti controllano gli elettori”.

In questo scritto innanzitutto, proviamo a comprendere l’origine del problema e il suo sviluppo, per poi passare a esaminare la situazione attuale e le risposte in campo, tanto sul piano delle idee che su quello delle iniziative.

Si può senz’altro dire che il problema nasca da lontano, dalla concezione stessa che sta alla base della nascita degli stati nazionali.

Nella visione dei grandi filosofi politici del tempo – ad esempio Hobbes e Rousseau – lo Stato rappresenta la sovranità assoluta, sovranità che gli viene attribuita dal popolo.

Ma per entrambi il popolo è un insieme di individui, singoli, autonomi, padroni di sé stessi; come dice sempre Bobbio ”nemmeno dovrebbe chiamarsi sovrano il popolo, ma i singoli individui in quanto cittadini”.

La società non è composta da una pluralità di corpi sociali, ma da una totalità indifferenziata di individui uguali, i quali, nell’impossibilità pratica di governare, “autorizzano” i rappresentanti a farlo a nome loro, riservando a sé stessi l’ambito privato.

In sostanza non esiste, o meglio non è riconosciuto, nessun altro soggetto tra lo Stato e il cittadino: vi è dunque, oltre a una visione individualistica, l’attribuzione allo Stato di un potere assoluto, ciò che ha avuto e conserva tuttora un pesante riflesso sulle istituzioni democratiche.

In base a questo principio, oggi superato dalla dottrina, ma che rimane costantemente presente come pregiudizio, l’Amministrazione Pubblica vede sempre come pericolosi il decentramento di potere e le autonomie e, quando queste si affermano, tende a sostenere che si tratta di una delega, di una concessione che dipende dal centro, il quale potrebbe sempre modificarla o ritirarla.

Si tratta di una remora di fondo, di un preconcetto datato, che non ha più nessuna giustificazione, ma che purtroppo continua spesso a ritornare.

  1. L’epoca dei partiti di massa.

In realtà nel dopoguerra questo problema è stato in una buona misura superato nei fatti dalla presenza dei grandi partiti di massa, che garantivano direttamente uno stretto ed efficace rapporto tra la vita, gli interessi, le idee delle persone e la rappresentanza politica.

La composizione dei partiti era molto omogenea e gli interessi fondamentali sostanzialmente rappresentati data la loro estensione: le stesse associazioni sociali (sindacati, cooperative, organizzazioni femminili, associazioni culturali) erano in larga misura organismi collaterali.

Dunque, il partito di massa garantiva il rapporto eletti-elettori sia sul versante dall’alto verso il basso, sia sul versante opposto dal basso verso l’alto: costituiva di fatto il grande corpo intermedio tra lo Stato e i cittadini.

Ma le trasformazioni sociali, valorizzando l’individualità e il pluralismo, hanno determinato il graduale superamento dei partiti, riproducendo di fatto la situazione di un tempo: quella di cittadini come individui singoli di fronte al potere politico statale.

La situazione poi si presenta oggi particolarmente complessa a causa di aggravanti che si sono man mano presentate: da una parte il potere politico è diventato più forte e più lontano (maggiori funzioni dello Stato, Unione Europea, globalizzazione), dall’altra il cittadino è sempre più isolato perché sono venuti meno tanti fattori di coesione sociale (classe sociale, comunità di paese e di quartiere).

E’ la situazione che Bauman ha definito come “la solitudine del cittadino globale”.

  1. Crisi della politica o nuovo paradigma politico?

Su questa problematica si sono espresse due posizioni fra loro contrapposte.

La prima, più negativa, la ritroviamo ad esempio nel giudizio espresso da De Rita, secondo cui l’attuale situazione di disaffezione dalla politica sia dovuta alla scomparsa dei corpi intermedi (in parte voluta da quei politici che hanno combattuto l’intermediazione) e che l’associazionismo successivo non sia stato in grado di riempire questo vuoto.

La seconda posizione, decisamente più positiva e interessante, soprattutto in prospettiva, proposta in particolare da Ulrich Beck, sostiene invece che ci troviamo di fronte a un profondo cambiamento del paradigma politico: la politica non è più solo quella dei partiti, perché oggi i cittadini hanno una maggiore capacità di informarsi e di esprimersi e lo fanno in tanti modi diversi; la crescita attuale dell’associazionismo è una dimostrazione che l’attività politica si è espansa in forme nuove.

Saremmo dunque di fronte non a una crisi della politica, ma a una sua metamorfosi, a una trasformazione tuttora in atto.

Se si guardano i dati degli aderenti, crollati drasticamente nel caso dei partiti, stabili quelli dei sindacati e in grande aumento per le associazioni sino a occupare il primo posto della graduatoria, si può desumere che questa tesi abbia una sua plausibilità.

Siamo di fronte a un fatto sociale, non a una pura teoria; anche se, naturalmente, non bastano i numeri per dare ragione a questa ipotesi: occorrerà misurare nel tempo la sua validità.

In ogni caso questa pone un problema, presentato anche da altri con un differente punto di vista. Di fronte a una notevole crescita, in Italia come in Europa, del settore “sociale”, nel senso più ampio della parola (che di fatto ha in larga misura sostituito la “comunità” di cui parla l’indiano Raghuram Rajan nel libro “Il terzo pilastro”, più rivolto alla situazione mondiale): sarebbe sbagliato considerare questa realtà solo come un insieme di servizi e di attività assistenziali.

Essa è un settore di grande rilievo non solo sociale, ma anche economico e indubbiamente in forma diretta o indiretta anche politico.

In sostanza si tratta di prendere atto che non ci sono soltanto i settori “pubblico” e “privato”, distinzione oggi molto discussa, ma esiste un terzo soggetto (o pilastro) che al momento possiamo chiamare “sociale”, che comprende assieme al Terzo Settore molte altre realtà della società civile, fra cui il sindacato (e naturalmente la comunità di Rajan).

Questi enti, una volta per lo più collaterali ai partiti, oggi sono autonomi e si pongono il problema di come e dove collocarsi nei confronti della politica: tema ancora del tutto aperto e foriero di possibili nuove prospettive.

  1. La partecipazione nella Costituzione.

Una riflessione ulteriore può essere sviluppata a partire dalla nostra Costituzione.

Essa ha un carattere esplicitamente programmatico, cioè esprime delle linee di tendenza, che avrebbero dovuto poi trovare concrete forme di attuazione e di espressione in tempi successivi.

Tra i primi articoli, giustamente definiti fondamentali, all’art.2 si riconoscono i diritti de “l’uomo sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità e (gli si) richiede l’adempimento dei suoi doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”

Il secondo comma del’art.3 merita di essere citato per esteso “E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno viluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.

Non meno importante è il secondo comma dell’art.4 “Ogni cittadino ha il dovere di svolgere secondo le proprie possibilità e la propria scelta un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”.

In questi articoli si parla esplicitamente di partecipazione; si vede in modo unitario, come se fossero una cosa sola, la partecipazione politica, economica e sociale; si riconoscono le formazioni sociali (dunque, tutto il “sociale” attuale); si identificano praticamente i cittadini coi lavoratori (si pensa a un cittadino lavoratore, un cittadino attivo che partecipa al benessere del paese); i lavoratori di cui si parla sono praticamente il popolo (la gente).

Dunque, nei principi fondamentali è delineata con chiarezza non certo l’architettura di uno Stato centralista, ma al contrario uno Stato in stretta congiunzione con la società e che può realizzarsi pienamente solo con la partecipazione attiva di tutti i cittadini.

I successivi articoli, dedicati alle autonomie locali, alle confessioni religiose, alle minoranze linguistiche integrano questo quadro di partecipazione pluralista e collaborativa alla realizzazione della repubblica.

In tempi recenti, infine, è stato recepito nel testo costituzionale il principio di sussidiarietà, affermando ulteriormente il ruolo autonomo e attivo dei cittadini “Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini singoli e associati per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di solidarietà” (art.118).

  1. Partecipazione e decentramento comunale.

Il principio della partecipazione dei cittadini, così chiaramente formulato nella Costituzione, non ha però trovato nella realtà quel riconoscimento e quella attuazione che sarebbe stato lecito attendersi.

L’autonomia comunale è stata formulata in modo congruo solo col Testo Unico dell’anno 2000 (dlgs. 267/2000), le province sono state esautorate senza una qualsiasi soluzione sostitutiva, le soluzioni di decentramento sono state spesso contrastate e non hanno ancora trovato un’adeguata definizione.

Così la legge 191/2009 (finanziaria del 2010), prendendo a giustificazione lo stato di crisi economica, ha abolito le “circoscrizioni di decentramento comunale”, nei comuni al di sotto dei 250.000 abitanti. Ma i comuni non sono autonomi e non possono organizzarsi come meglio ritengono?

Secondo una parte del pensiero giuridico, le strutture di decentramento sono “organi di governo” (cioè esercitano funzioni di indirizzo politico-amministrativo nei confronti dell’apparato), ricadono nella disposizione del’art.117 della Costituzione (comma 2, lettera p) e pertanto possono essere regolate dal governo centrale per un’esigenza di uniformità nazionale.

Le forme di natura partecipativa (che hanno carattere consultivo, propositivo e collaborativo) sono invece lasciate all’autonomia comunale.

Questa distinzione comporta però delle rigidità evidenti: gli organismi di decentramento sono stati così realizzati come una copia dei consigli comunali, con alcune funzioni di amministrazione e di rappresentanza, ma trascurando di fatto la dimensione partecipativa.

Come bene scrive Filippo Pizzolato, docente di diritto pubblico, è stato ripetuto a livello di decentramento lo schema dei partiti, nonostante la loro debole rappresentanza attuale: le elezioni sono fatte su base partitica, i partiti presenti in Comune non hanno bisogno di raccogliere le firme di presentazione della lista, si presentano candidati consiglieri e presidenti che non appartengono alla zona.

Qualora si volesse essere più aderenti alla realtà locale, si potrebbe innovare modificando il sistema elettorale, consentendo la possibilità di candidarsi anche individualmente, sulla base di un certo numero di firme, ed evitando così che il consiglio di decentramento sia una pura rappresentanza di partiti (in pratica, spesso, un piccolo parlamentino).

In altre parole, oggi il consiglio di decentramento svolge le funzioni di governo e di rappresentanza, ma non realizza l’altro obiettivo fondamentale, che è quello della partecipazione.

La soluzione migliore sarebbe un’integrazione per cui il Consiglio statutariamente svolgesse anche questa funzione; una diversa possibilità è attribuire al consiglio il compito di realizzare apposite strutture e iniziative partecipative.

  1. Le esperienze partecipative.

Affrontando più direttamente le forme partecipative, ci troviamo di fronte a un pullulare di delibere regionali e comunali, di formule e di proposte, nonché di iniziative e di esperienze concrete, di notevole varietà e ampiezza.

Ci sono Regioni, in particolare la Regione Emilia-Romagna e la Regione Toscana, che da tempo hanno predisposto leggi quadro entro cui possono svolgersi le iniziative partecipative; e in realtà sono molteplici le attività che si sono svolte, relative a singoli progetti o strutture.

Raramente queste esperienze assumono un carattere “deliberativo” (dove l’espressione dei partecipanti, spesso estratti a sorte, incide direttamente sulla decisione); più spesso esprimono un coinvolgimento attraverso proposte e indicazioni che entrano nella “governance” del progetto in questione.

I Comuni invece procedono su una doppia strada come indicato, tra gli altri, da due delibere del Comune di Milano.

Con la delibera “Regolamento comunale disciplina per la partecipazione dei cittadini attivi alla cura, alla gestione condivisa e alla rigenerazione dei beni comuni urbani” del maggio 2019, ci si occupa dele attività proposte da gruppi di cittadini e che possono realizzarsi con la collaborazione del Comune.

E’ la proposta che nasce da Labsus, associazione che da anni agisce meritoriamente sul tema della partecipazione e dei beni comuni, e che oggi è sottoscritta da centinaia di comuni; una formula pratica, particolarmente rivolta alla cura e gestione dei beni comuni (a riguardo l’applicazione più avanzata, e che merita di essere citata, è quella di Napoli, che ha promosso un “uso civico collettivo urbano” con cui associazioni della società civile gestiscono beni pubblici in disuso).

Esiste poi una seconda delibera “Regolamento per l’attuazione dei diritti di partecipazione popolare” del febbraio 2016, che riveste un carattere più generale, dedicata a tutte le specie possibili di partecipazione, oltre a quelle tradizionalmente già presenti nello Statuto comunale (istruttoria pubblica relativa a provvedimenti del Consiglio; dibattito pubblico su opere urbane, ambiente, servizi; istituti partecipativi per la progettazione urbana e edilizia; forme di partecipazione nei servizi pubblici a domanda individuale; convenzione coi cittadini; bilancio partecipativo; domande a riposta immediata).

Però se si guarda il portale del Comune di Milano e lo si confronta con quello di Bologna, la differenza appare subito all’occhio: qui le esperienze si contano sulle dita di una mano (anche perché le delibere sono recenti), là si contano a centinaia e sono molto varie e interessanti.

Questo porta a una considerazione fondamentale: non basta fare delibere che prevedano la partecipazione, occorre crederci, promuoverla, incrementarla, farla diventare una prassi normale e consapevole dell’Amministrazione.

Anche per quanto abbiamo detto prima sul decentramento, esiste perennemente il rischio che la partecipazione sia considerata una cosa bella, ma di scarso rilievo, quasi un sovrappiù, qualcosa di superfluo, una sperimentazione un po’ artificiale, che serve più all’apparenza che alla sostanza.

La partecipazione invece è un fatto costitutivo della nostra repubblica, esprime e realizza la forma di governo che è stata prevista dalla nostra Costituzione.

Passi avanti, indubbiamente, ne sono stati fatti e ormai la strada è aperta, ma certamente l’approccio rimane timido e limitato; soprattutto non ha ancora portato la partecipazione a diventare una forma organica del modo di governare.

La Pubblica Amministrazione ha bisogno della partecipazione per avere consenso e legittimazione, anche perché la partecipazione costituisce un processo essenziale di democratizzazione.

Spetta innanzitutto ai Comuni, le amministrazioni più vicine e più sentite dai cittadini, compiere un passo decisivo in questa direzione, dimostrando di credere effettivamente ai cittadini come a una ricchezza sociale.

  1. La cittadinanza attiva.

Un discorso a sé stante merita la “cittadinanza attiva” che, stando ai suoi fondatori e promotori, si distingue per principio dalle forme di democrazia partecipativa.

La democrazia partecipativa è maggiormente espressione o comunque connessa alle istituzioni, in quanto la prevedono, la regolano, la promuovono: dunque, la democrazia partecipativa si esprime soprattutto attraverso rapporti collaborativi con le pubbliche amministrazioni.

La cittadinanza attiva invece è un’autonoma forma di organizzazione e di iniziativa dei cittadini che operano per il rispetto dei diritti sanciti dalla legge ma non rispettati, oppure di diritti interpretati in modo riduttivo o che trovano ostacoli burocratici e ancora diritti delle fasce più deboli, le quali non sono in grado da soli di farli rispettare.

La “cittadinanza” dovrebbe significare una piena appartenenza a una comunità su un piano di eguaglianza di diritti; però sappiamo che la realtà spesso è lontana da questo modello, così la cittadinanza attiva agisce per rispondere alle incongruenze.

L’orizzonte poi della cittadinanza attiva è molto più ampio perché si fonda sulla convinzione che sia avvenuto un cambiamento profondo della politica, dovuto proprio al fatto che i cittadini sono diventati attivi.

La politica non è più solo una questione specializzata e propria dei partiti, ma si è generalizzata e tutti ora possono partecipare, anche i singoli (art.118 Cost.).

La cittadinanza attiva si propone di produrre informazioni, di cambiare le coscienze, di rendere più efficaci le istituzioni, intervenendo in situazioni concrete per dare legittimazione ai soggetti più deboli.

In genere l’iniziativa parte da situazioni che manifestano una crisi della cittadinanza, proprio per far emergere al di là del caso, problemi generali di interesse collettivo.

Molto significativo è il Rapporto annuale sullo stato della sanità, un tema che è stato privilegiato sin dall’origine dall’ Associazione “Cittadinanza attiva”: l’informazione sulle condizioni di fatto rappresenta sempre il primo passo per ogni azione successiva.

L’obiettivo della cittadinanza attiva è molto ambizioso; spostare il baricentro della politica fuori dal sistema politico formale.

Poiché il rapporto eletti/elettori tende a non funzionare né dall’alto verso il basso, né dal basso verso l’alto, occorre sganciarsi, almeno in una certa misura, dal principio della rappresentanza e rendere i cittadini direttamente presenti e operanti in tanti campi.

La cittadinanza attiva serve, dunque, a ridisegnare la politica.

L’Amministrazione Pubblica tende a considerare le associazioni come una cosa “privata”: invece esse possono avere una dimensione e una funzione pubblica.

Si tratta del principio di sussidiarietà (orizzontale) tra Stato e soggetti non statali impegnati in questioni pubbliche, portando un valore aggiunto; senza nulla togliere alla responsabilità della Pubblica Amministrazione, questo processo valorizza l’apporto dei cittadini, contribuendo così a una democrazia più sostanziale.

  1. Il Terzo Settore e la democrazia.

Abbiamo parlato del “sociale” come di una realtà che va assumendo una crescente importanza anche politica, sia pure in un senso nuovo: un esempio di questo lo possiamo trovare nello sviluppo che ha conosciuto il Terzo Settore.

Non si tratta solo di una crescita economica, benché ora rappresenti il 5% dell’economia nazionale, ma soprattutto, per quanto riguarda la nostra riflessione, con l’approvazione della legge 117/2017 (Codice del Terzo Settore), il settore viene riconosciuto nella sua funzione di promozione civica e sociale e come interlocutore diretto della Pubblica Amministrazione: “Al fine di sostenere l’autonoma iniziativa dei cittadini che concorrono, anche in forma associata, a perseguire il bene comune, ad elevare i livelli di cittadinanza attiva, di coesione e protezione sociale, favorendo la partecipazione, l’inclusione e il pieno sviluppo della persona, a valorizzare il potenziale di crescita e di occupazione lavorativa, in attuazione degli articoli 2,3,4,9,18,118, quarto comma, della Costituzione, il presente Codice provvede al riordino e alla revisione organica della disciplina vigente in materia di enti del Terzo Settore”.

La formulazione è molto esplicita e corrisponde a una visione di democrazia attiva dei cittadini che dovrebbe sia rendere la politica più vicina alle persone e alle comunità, sia agevolare la loro collaborazione e partecipazione alle politiche, soprattutto locali.

La legge poi prevede delle forme specifiche con cui la Partecipazione dei cittadini può realizzarsi: la co-programmazione, la co-progettazione e la convenzione; forme attraverso le quali gli enti possono contribuire a stabilire i bisogni e gli interventi da effettuale o gestire di comune accordo progetti di interesse generale.

E vale la pena di citare una sentenza della Corte Costituzionale (n.131/2020) che esplicita chiaramente il valore di questo riconoscimento: “Si instaura tra i soggetti pubblici e gli enti del Terzo Settore, in forza dell’art. 55, un canale di amministrazione condivisa, alternativa a quella del profitto e del mercato: la co-programmazione e la co-progettazione e il”paternariato” si configurano come un procedimento complesso, espressione di un diverso rapporto tra il pubblico e il privato sociale…. Il modello configurato dall’art.55 infatti non si basa sulla corresponsione di prezzi e corrispettivi della parte pubblica a quella privata, ma sulla convergenza di obiettivi e sull’aggregazione di risorse pubbliche e private per la programmazione e la progettazione in comune di servizi o interventi diretti a elevare i livelli di cittadinanza attiva, di coesione e protezione sociale, secondo una sfera relazionale che si colloca al di là del mero scambio utilitaristico”.

Il Terzo Settore è quindi riconosciuto, al di là dell’aspetto economico (indubbiamente non secondario), come espressione di rapporti di convivenza e di solidarietà sociale e capace di promuovere più alti livelli di cittadinanza attiva.

Se è vero che il sociale va acquistando, sia pure gradualmente, questa dimensione “politica”, è anche evidente che si tratta di una forma politica del tutto nuova, notevolmente diversa da quella dei partiti; chiaramente la militanza politica di ieri non è stata pienamente sostituita dalla coscienza civica di oggi, ma quanto meno si è aperta una strada significativa.

Il partito ha una sua visione ideale-ideologica e i suoi aderenti sono, almeno ipoteticamente, dei sostenitori militanti di questa idea.

Il Terzo Settore non ha ideologia fatta propria dai suoi partecipanti: piuttosto si può dire che è la sua azione stessa che si presenta come un’attività che favorisce una cittadinanza partecipata.

Poiché il Terzo Settore opera generalmente in aree sociali difficili e problematiche, l’azione che vi svolge è già di per sé cittadinanza attiva, perché rende più consapevoli le persone, li rende più cittadini, se così si può dire.

E poi con l’esperienza che deriva dall’essere presenti, magari da anni, in realtà sociali bisognose, spesso si acquista una conoscenza molto profonda delle situazioni; conoscenza che difficilmente potrebbe avere un funzionario o un tecnico che non opera sul terreno.

Un bell’esempio, a riguardo, è quello riportato da Giovanni Moro: non c’è nessuno più esperto di barriere architettoniche del disabile, che sperimenta di persona quotidianamente gli ostacoli che si incontrano.

Senza attendersi dal Terzo Settore soluzioni esaurienti e miracolose, è indubbiamente rilevante il contributo che sta dando e che può dare alla partecipazione; si tratta di un settore in continua crescita e la sua evoluzione deve affrontare questioni importanti, come l’autonomia finanziaria e la capacità di rappresentanza generale.

  1. Partecipazione e prospettive.

Vorremmo concludere richiamando due problemi di natura generale, che potremmo definire di prospettiva, perché è sempre utile, mentre si lavora sui concreti problemi quotidiani, avere presente anche un più ampio orizzonte ideale.

La prima prospettiva che vale la pena di tenere presente è quella dell’economia associativa.

La democrazia associativa propone che l’intera attività dei servizi sociali sia affidata alla società civile e alle sue associazioni, non attraverso bandi e gare annuali o pluriennali, ma in modo organico e permanente.

Significa consegnare alle associazioni sociali non solo la gestione, ma anche il patrimonio, i fondi pubblici relativi e naturalmente la responsabilità economica e finanziaria.

Un’ampia fascia di cittadini, quelli che operano in questi settori, ma anche i numerosi utenti dei servizi, sarebbero chiamati ad assumere delle responsabilità pubbliche o essere comunque coinvolti.

Se si tiene presente quante attività sociali comunali sono oggi gestite da cooperative sociali o da associazioni, questo discorso non appare del tutto astratto: se si realizzasse potrebbe basarsi su una cospicua e pluriennale esperienza.

La proposta si inserisce in un quadro più ampio e variegato che va sotto il nome di democrazia economica: partecipazione dei lavoratori nelle aziende, azionariato dei dipendenti, aziende pubbliche di proprietà dei cittadini, affidamento di beni comuni e servizi alla società civile, ecc..

A un livello più immediato, il contributo delle imprese alla vita collettiva sembra piuttosto limitato; tendono a contribuire in modo filantropico “una tantum”, evitando di farsi coinvolgere in processi permanenti di condivisione di responsabilità.

Poiché nelle nostre società l’economia riveste un ruolo sempre più rilevante è difficile pensare che la democrazia possa svilupparsi senza affrontare il nodo dell’economia, per quanto problema arduo.

La seconda prospettiva essenziale è quella dei valori.

I partiti di una volta erano organizzazioni fortemente ideologiche, espressioni di visioni del mondo (comunismo, socialismo, democrazia cristiana); ora non solo hanno abbandonato le ideologie, ma anche non esprimono più alcun valore, se non quello di dichiararsi di destra o di sinistra (ma appunto che cosa significano e a quali valori si ispirano?).

L’affermazione dell’associazionismo (il volontariato, il Terzo Settore e altre forme aggregative) è certamente dovuto anche a una profonda differenza proprio su questo piano: l’associazionismo esprime dei notevoli valori (di solidarietà, uguaglianza, convivenza pacifica) e soprattutto li esprimono nella pratica dell’impegno quotidiano.

Questa riflessione ci serve come conclusione del discorso che abbiamo sviluppato. Non solo i partiti dovrebbero ritornare a esprimere valori, ma altrettanto ogni azione sociale e civile deve fondarsi su valori robusti e adeguati al tempo presente.

Così la partecipazione dei cittadini, a cui fortemente crediamo, ha senso se è portatrice di una carica ideale capace di portare vita nuova nelle istituzioni e dare loro non solo più efficacia, ma anche uno spirito più aperto ad una convivenza umana fraterna.


Bibliografia Minima

Hirst Paul, Dallo statalismo al pluralismo, Bollati Boringhieri, Torino, 1999

Moro Giovanni, Cittadinanza attiva e qualità della democrazia, Carocci, Roma 2013

Pizzolato Filippo, Dopo le circoscrizioni, i quartieri, Amministrare n.2/2014

Pizzolato Filippo, Democrazia come autogoverno: la questione dell’autonomia locale, Costituzionalismo.it 2015

VDossier (rivista CSV), Esserci o non esserci, quale partecipazione, n.2/2018


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