Dispensa di cultura e formazione politica n.9

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Il capitale e la società attuale.

In passato la sinistra riteneva il capitalismo il suo nemico principale, pensava che si dovesse “fuoriuscire” dal capitalismo, che si dovesse abbatterlo, superarlo.

A riguardo si è realizzato un copioso dibattito storico che sembra inutile qui ripercorrere, in quanto da tempo è stato abbandonato: l’idea marxista, che i lavoratori potessero sostituire gli imprenditori nella proprietà e nella direzione delle aziende, sembra del tutto improponibile oggi di fronte alla complessità dell’economia mondiale.

Anche l’esperienza realizzata di un modello diverso, quello del comunismo sovietico, si è dimostrato sostanzialmente negativo, così da rendere poco plausibile un sistema alternativo.

Parallelamente il socialismo occidentale (“la socialdemocrazia”) ha costantemente evitato di porsi il problema, perseguendo in sostanza la via redistributiva, quella del maggior benessere all’interno del sistema presente.

Oggi però la strada del crescente benessere si presenta critica e insicura, a differenza di un tempo, e anche quel tanto di benessere che si riesce a realizzare non è destinato a tutti, provocando disuguaglianze e continue fratture sociali.

Per questi motivi sembra riproporsi il problema del capitalismo: in altre parole ci si chiede se questo sistema sia in grado di dare risposte soddisfacenti ai bisogni dei molti o, se invece, sia necessario pensare a dei cambiamenti profondi.

Non si tratta certo di abbattere o di cancellare il sistema, come in modo piuttosto semplificato, si pensava una volta; il sistema economico è uno solo, quello esistente, e si tratta dunque di trasformarlo realizzando cambiamenti sostanziali attraverso una lunga e articolata battaglia per rimuovere gli ostacoli a una società più giusta.

A livello mondiale, se alcuni paesi sono riusciti a svilupparsi, molti altri rimangono fermi e la loro mancanza di sviluppo non costituisce un ritardo destinato a colmarsi, perché il sistema è polarizzato e accanto ai vincenti, si pongono i perdenti, gli esclusi.

La globalizzazione poi, se da un lato ha alimentato un certo progresso economico, dall’altro ha fortemente esautorato le forze che, in forma diversa, controbilanciavano la potenza dell’economia: la classe lavoratrice da una parte, il potere politico dall’altra.

Non è vero che la classe lavoratrice non esista più: gli operai – quelle con le tute blu – sono più numerosi del tempo passato, però non si trovano più in Occidente, ma sono ora in Cina, India, Bangladesh, Indonesia, Vietnam… e la classe lavoratrice (il proletariato, quello che dipende da un padrone e vive del salario) è ben più vasta e nel mondo rappresenta 3,5 miliardi di lavoratori e lavoratrici.

Il problema non è la sua sparizione, ma il fatto di presentarsi in questo modo così articolato, in tanti paesi e in infinite differenziazioni, rende difficile considerala un soggetto unitario in condizione di contrastare il potere dell’economia mondiale; la sua azione è ancora in larga misura di carattere nazionale, coi limiti che ciò rappresenta nella situazione odierna.

La globalizzazione, con la sua “deregulation”, ha prodotto anche un drastico effetto di delegittimazione degli Stati e delle istituzioni pubbliche, che sono state depotenziate e invece di governare l’economia sono costrette a rincorrerla in modo subalterno.

Oltre alla società prossima (casa, vicinato, lavoro) e quella più ampia (città, nazione, chiesa) si è formata una terza società, una società-mondo che ci sovrasta e in cui non esiste alcun potere democratico, presentandosi come un potere neutro, anonimo.

Il capitalismo ha fatto di tutto per rendere l’economia libera dalla politica, un mondo a sé autosufficiente, che vive di regole proprie, indiscutibili, e indubbiamente ha ottenuto grandi successi in questa direzione.

Le criticità del sistema sono dunque profonde e richiedono di essere affrontate.

Certamente il capitalismo non è più quello di un tempo, l’economia e la società sono diventate mondiali e la realtà si presenta così complessa che è impensabile che con un solo atto – la rivoluzione – si possa cambiare tutto.

Oggi l’intero sistema è capitalistico e il surplus non proviene solo dal plusvalore del lavoro, ma esiste un valore mondiale globale che deriva, oltre che dal lavoro, dalla finanza, dalle rendite, dall’estrattivismo, dal commercio, dalla corruzione, …

E il capitalismo pervade l’intera società (pensiamo anche solo al potere dell’informazione e comunicazione), si intreccia col potere politico, mette la scienza e la tecnica al proprio servizio.

Inoltre, il capitalismo è in larga misura la causa dell’individualismo che è ormai il carattere dominante che caratterizza le persone nel mondo occidentale, le quali sono per questo meno disposte a risposte collettive e più soggette a influenze esterne, in particolare dai mass-media.

Il capitalismo, comunque, contrariamente al parere di alcuni, non è irriformabile, solo che la battaglia necessaria contempla molti obiettivi e problemi da affrontare e si presenta pertanto lunga e molto diffusa nel tempo.

Qui però sta il nodo prioritario della politica.

Non si può oggi fare politica – nessuna politica – se non si ha chiara la situazione in cui ci troviamo e la priorità dei problemi da affrontare.

 

I soggetti del cambiamento.

La storica dottrina marxista, che assegnava alla classe operaia il ruolo maieutico di abolire il capitalismo e di dar vita a una nuova società, non può più essere sostenuta.

La realtà dell’economia e della società attuale sono troppo complesse per poter essere affrontate in modo semplice e d’altra parte la classe lavoratrice mondiale è troppo differenziata per costituire una forza dotata di un disegno comune di questa natura.

La complessità fa sì che i problemi da affrontare siano molteplici e che pertanto anche i soggetti siano molteplici; si potrebbe dire tanti quanti sono i problemi.

Non c’è nessun soggetto predestinato dalla storia a salvare l’umanità: i soggetti che possono contribuire ai cambiamenti necessari sono tanti: i lavoratori, le donne, i giovani, gli studenti, gli ecologisti, i popoli, gli indigeni, gli uomini e i gruppi di cultura, gli artisti e, potremmo dire, anche i cittadini e le persone.

Poiché le battaglie sono tante e molto diverse fra loro, il problema cardine da affrontare consiste nell’individuare il “punto di congiunzione” in cui tutte queste lotte possono incontrarsi e unirsi: lotte diverse, ma orientate nella stessa direzione.

In Occidente una difficoltà ulteriore è data dalla diffusa mentalità individualistica; non si tratta tanto di egoismo – che naturalmente può esserci – ma del fatto che siamo tutti “individualizzati” (è quella che Bauman chiama la solitudine dell’uomo globalizzato).

L’individualismo ha un aspetto positivo, infatti ogni persona lo vive come sviluppo e accrescimento della propria soggettività; la difficoltà nasce dal mettere insieme tante soggettività diverse, perché l’aumento dell’individualismo comporta un serio indebolimento dei legami sociali.

D’altronde, se si vogliono affrontare i problemi della società attuale, occorrono non tanto le masse generiche di ieri, ma lo sforzo congiunto di tante persone culturalmente preparate.

I movimenti di oggi possono contare solo se dimostrano di avere una cultura all’altezza dei problemi da affrontare; dunque, le soggettività non sono un ostacolo, ma preziose risorse per l’azione collettiva.

La capacità di saper coinvolgere risorse umane per la causa comune è una questione decisiva; ogni movimento o gruppo mentre porta avanti la propria battaglia deve riconoscere altrettanta importanza all’intesa con gli altri movimenti, per integrare le energie disponibili.

 

Lo strumento di lotta: la democrazia.

Un altro problema richiede di essere affrontato e chiarito pregiudizialmente: si tratta del metodo di lotta da adottare.

In passato per superare il capitalismo si pensava di realizzare la rivoluzione.

Può darsi che in qualche singolo paese o in un ambito particolare si possa essere “rivoluzionari”, ma è da scartare l’idea che oggi si possa fare una rivoluzione mondiale che in un sol colpo trasformi la situazione.

La forma di lotta da adottare è una sola: la democrazia.

E ciò per diversi motivi tutti rilevanti:

  • Innanzitutto, perché ci troviamo in paesi democratici, dove la democrazia è universalmente accettata e costituzionalmente stabilita

  • In secondo luogo, perché la democrazia richiede il consenso della popolazione e noi vogliamo un cambiamento che sia condiviso

  • Infine, perché la democrazia significa partecipazione, necessaria per far crescere la coscienza collettiva, che è un carattere essenziale della società che desideriamo

Purtroppo, è diffusa un’idea sbagliata di democrazia, come un’istituzione statica, che consente di vivere pacificamente e che non chiede nulla se non di votare ogni tanto; è così pacifica che molti usano il sistema democratico per farsi gli affari propri e non votare nemmeno più.

La democrazia invece è l’“arma” con cui noi possiamo cambiare le cose, però una democrazia attiva, sostanziale, “insorgente” (così la definisce Miguel Abensour, studioso francese), cioè una democrazia trasformatrice.

Questa nuova idea di democrazia è una questione sostanziale; i problemi che abbiamo di fronte sono giganteschi, i nemici da affrontare molto potenti, non è una stanca democrazia che può cambiare le cose: è necessaria una battaglia permanente e di grande respiro per determinare un cambiamento significativo.

Se non facciamo niente, se siamo passivi, la democrazia regredisce; se operiamo, dibattiamo, proponiamo, la democrazia progredisce nel quartiere, nell’azienda, nella politica.

Ognuno di noi è un cittadino che fa democrazia ogni giorno ed è questo insieme di iniziative di tante persone democratiche che si uniscono in tanti modi diversi, che determina il cambiamento.

Ritorniamo al problema della classe lavoratrice: essa rimane un soggetto importante, anche se non esclusivo, ma il problema va visto in modo diverso dal passato.

La condizione dei lavoratori in azienda rimane del tutto insoddisfacente e soggetta all’arbitrio, non tanto per le questioni redistributive (che pure esistono sempre), ma perché il lavoratore continua a trovarsi in una condizione di “dipendenza”.

La democrazia non è entrata nella fabbrica e se il lavoratore passa la maggior parte della sua vita in una condizione che non gli consente di esprimersi pienamente come cittadino e come persona, rischia poi di adagiarsi in un atteggiamento di passività anche per il resto del suo tempo.

Cambiare in senso democratico la vita dell’azienda è la condizione perché i lavoratori possano poi partecipare pienamente al cambiamento democratico, mentre la situazione attuale è causa di disinteresse e di apatia, di scarsa credibilità in un’ipotesi di democrazia trasformatrice.

La classe lavoratrice è una realtà molto composita, sia per i settori che copre (industria, settore pubblico, sanità, educazione, agricoltura, commercio internazionale, trasporti e logistica, grandi opere…) sia per la sua composizione: è qui che in una buona misura dovrebbe realizzarsi quell’incontro tra la base e la componente tecnica e intellettuale in grado di fornire nuove proposte e nuove soluzioni ai grandi problemi del tempo.

Un discorso analogo va fatto per il rapporto donne/uomini; non si può certo aspettare un potere diverso per cambiare questi rapporti. È da un cambiamento sociale già oggi di questi rapporti, nel senso di maggiore uguaglianza e di maggior riconoscimento delle differenze, che deriva una società più matura e quindi più in grado di sviluppare ulteriori progressi.

 

L’importanza della battaglia politica.

Siamo di fronte a una crisi sostanziale degli Stati nazionali e della politica, perché l’economia sovrasta la politica e la teoria politica classica, secondo cui la politica indica i fini e l’economia fornisce i mezzi, appare poco più di una favola, tanto i ruoli sono invertiti.

L’economia è diventata autonoma, possiede i propri fini ed è larga di mezzi, mentre la politica ha dei mezzi limitati e i suoi fini rischiano di restringersi ogni giorno di più.

Da qui un duplice effetto negativo: da una parte il sorgere del populismo che non si rassegna alla decadenza del proprio paese e pensa di opporsi difendendo i confini e l’esistente, dall’altra una percentuale sempre più ampia di popolazione che avverte la perdita di peso della politica e opta per l’astensione.

Questa situazione è strutturalmente grave: perché le grandi decisioni sono prese in luoghi lontani (e spesso ignoti) e la democrazia – il governo del popolo – rischia di essere limitata a questioni locali marginali, mentre i governi, perennemente deboli e instabili, non sono assolutamente in grado di affrontare i “grandi” problemi, che dominano ormai l’universo quotidiano.

Si crea un circolo vizioso: si critica la politica perché conta poco e pertanto la si abbandona, ma così facendo la politica peggiora ulteriormente.

I mass-media, i social, la perdita di senso delle istituzioni e delle organizzazioni hanno minato la vita associativa, ma se un partito non ha più una base consistente e critica come si può pensare che funzioni il vertice?

Contro le attuali tendenze qualunquistiche, il ruolo della politica va rivalutato, ma per realizzare una democrazia sostanziale.

Per realizzare il cambiamento auspicato si deve operare su un duplice livello: dall’alto attraverso la politica dei partiti e delle istituzioni, dal basso attraverso azioni dirette e iniziative che si sviluppano nella società.

Nonostante le critiche ai partiti e alle istituzioni, la politica nazionale rimane sempre un luogo dove si prendono decisioni importanti; in mancanza di un governo mondiale gli Stati conservano comunque un ruolo significativo.

Nel contesto che abbiamo descritto appare chiaro che la priorità della battaglia politica, anche nazionale, è rivolta al piano internazionale.

Se osserviamo le istituzioni internazionali, vediamo che nessuna di esse ha un carattere democratico e spesso neppure sufficientemente rappresentativo.

L’ONU ha un’Assemblea dove sono rappresentati tutti gli Stati, ma il potere maggiore fa capo al Consiglio di Sicurezza, dove le potenze vincitrici dell’ultima guerra mondiale hanno un potere di veto.

Un problema analogo si pone per i due grandi istituti finanziari, la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale; anche in questo caso i paesi occidentali e i loro alleati hanno un potere maggioritario (e gli Usa detengono di fatto un potere di veto, perché possiedono il 16% delle azioni e le decisioni più importanti vanno prese con l’85% dei voti).

Non meno precaria si presenta la situazione dell’Europa, la cui organizzazione istituzionale prevede un Parlamento con poteri limitati, incomparabili con quelli dei parlamenti nazionali, e le decisioni principali che spettano al Consiglio Europeo, devono essere assunte all’unanimità.

Se pensiamo poi ai tanti problemi che, in mancanza di un’autorità mondiale, rimangono costantemente irrisolti (per citarne alcuni: l’eliminazione dei paradisi fiscali, una regolamentazione delle multinazionali, una fiscalità omogenea transnazionale per le aziende, controllo della finanza soprattutto quella dei derivati…) appare chiaro il cambiamento che dobbiamo apportare alla nostra politica: essa deve essere sempre più rivolta a un’azione incisiva a livello internazionale.

 

L’economia mondiale: terreno di scontro decisivo.

L’economia è diventata mondiale, assumendo un potere sempre maggiore e operando sostanzialmente senza controllo. Enormi sono in questo campo i problemi da affrontare: il primo e maggiore problema è il grande divario Nord – Sud o, meglio, la condizione di non sviluppo in cui si trovano tanti paesi.

Certamente grandi paesi come la Cina e l’India, ieri considerati paesi poveri, hanno saputo realizzare uno sviluppo prodigioso e con loro alcuni altri.

Ma molti sono i paesi che rimangono poveri, perché lo sviluppo dei più forti è fatto anche a spese dei più deboli (basterebbe ricordare il caso di Haiti, diventato indipendente nel 1804; poiché la popolazione era al 90% composta da schiavi, questi hanno dovuto pagare alla Francia il riscatto dai loro padroni fino al 1950!); in sostanza avviene che il surplus si trasferisce in larga misura dalla periferia al centro.

Da qui anche le migrazioni, che hanno molti motivi (guerre, clima, siccità, mancanza di lavoro, land grabbing…), ma che alla base hanno una sola e grande causa: l’impossibilità di vivere in condizioni disumane.

Si possono ideare tanti provvedimenti di contenimento dei flussi migratori, ma se non si interviene sulle cause a monte, difficilmente si fermerà un movimento di massa spinto dalla necessità.

È un caso evidente di un problema che non può essere lasciato alle libere forze del mercato, che non sono in grado di risolverlo e che spesso, anzi, sono all’origine del problema.

Fra i maggiori problemi economici, fuori controllo, va citata la situazione della finanza.

Con la fine del cambio fisso del dollaro, la rapidità dei movimenti assicurata dagli strumenti informatici e la liberalizzazione selvaggia che ha prevalso, la finanza ha assunto un ruolo economicamente dominante.

È stato calcolato che il totale dei derivati ammontava nel 2018 a una cifra 33 volte superiore al PIL mondiale (2,2 miliardi di milioni di dollari) e si tratta di strumenti finanziari non soggetti ad alcun controllo di emissione da parte delle Banche nazionali, come succede invece per il credito ordinario.

E basterebbe ricordare che l’ultima grande crisi economica, quella del 2008, è stata provocata dai derivati sub-prime del mercato immobiliare americano.

Fra i maggiori problemi in campo economico, va posto il ruolo delle multinazionali che creano catene mondiali di valore con una capacità illimitata di sfruttare le risorse umane e naturali dell’intero pianeta, ovunque si trovino.

Le multinazionali hanno un potere enorme di condizionamento degli Stati (il loro bilancio è spesso di gran lunga superiore), corrompendo governi e funzionari, ricattandoli con la minaccia di abbandonare il paese, imponendo le loro regole commerciali, ambientali, lavorative.

Inoltre, il potere sindacale in questi complessi è in genere molto ridotto o addirittura assente, per cui le multinazionali si muovono libere da leggi e da obblighi, non esistendo norme internazionali che regolino la loro attività.

Un caso particolare è quello delle grandi imprese di comunicazione (Facebook, Google, Twitter, Huawei, Alibaba, …), diffuse in tutto il mondo, con un’elevata capitalizzazione in Borsa, ma con capitali reali molto modesti e pochi lavoratori.

I loro beni sono “intangibili” (brevetti, ricerche, brand, personale con elevata preparazione, …) e pertanto difficilmente classificabili e valutabili, ciò che offre loro una grande possibilità di eludere le tasse, spostando gli introiti da un paese all’altro; paesi che spesso si fanno concorrenza tra loro diminuendo le tasse, pur di poterli ospitare.

Infine, la globalizzazione ha determinato enormi effetti sul lavoro e sulla condizione sociale di grandi masse.

Tanta parte del lavoro industriale si è trasferito nell’area asiatica, dove il costo è sensibilmente inferiore, trasformando le economie europee e americana, in economie terziarie.

Inoltre, a livello mondiale non solo il lavoro è pagato molto meno, ma anche riveste un carattere prevalentemente “informale”, non regolamentato, e ciò non è senza conseguenze anche sul nostro mercato del lavoro, dove si diffonde la precarietà.

Anche il campo del lavoro, dunque, richiede un’azione mondiale per stabilire delle regole, realizzare accordi, trovare soluzioni concordate: la dimensione nazionale non è più sufficiente e mentre le imprese si internazionalizzano, il sindacato stenta a adeguarsi.

La battaglia per un’economia mondiale diversa va condotta su vari fronti: con politiche nazionali di contenimento dell’eccessivo potere economico, sviluppando la democrazia nelle aziende, promuovendo leggi e norme internazionali, sviluppando l’economia pubblica, realizzando accordi regionali tra Stati, … In questo campo un problema fondamentale che si pone è riorientare la politica della sinistra e delle forze sociali e del lavoro, ancora per lo più rivolte a superate difese di carattere nazionale, invece di lavorare per un nuovo assetto mondiale.

 

Un’alternativa, l’economia sociale.

Accanto all’economia ispirata al profitto occorre sviluppare un’ altra economia, che possiamo chiamare economia sociale o civile, un vero e proprio settore distinto da quello privato e da quello pubblico e che dovrebbe assumere nel tempo la stessa rilevanza degli altri due.

Sviluppando l’economia sociale (o civile) non si supera certamente il capitalismo, ma si immette nel capitalismo una prospettiva del tutto differente che tanto più riesce a crescere tanto più condiziona e frena il capitalismo, riservando maggior spazio a prospettive umane e sociali.

L’importanza di questo settore è evidente in tanti paesi in via di sviluppo dove l’economia capitalistica ha una dimensione molto limitata e prevale un’economia mista di piccole imprese, artigiani, cooperative, lavoro individuale, di comunità, ecc …

Ma anche da noi il Terzo Settore sta assumendo un peso crescente e man mano, sviluppando le risorse finanziarie e le capacità di investimento (senza abbandonare il suo carattere di impresa umana collettiva), può costituire l’ossatura di questo nuovo pilastro economico.

Si potrebbe, in futuro, avanzare delle proposte di “economia associativa”, cioè, affidare interi settori sociali (es. le case di riposo) al settore non profit. In alcuni campi si può riproporre il mutualismo, una forma di solidarietà autogestita, per rilanciare la collaborazione sociale, oppure realizzare aziende comunali dove gli azionisti siano i cittadini, per responsabilizzarli.

È bene richiamare la logica sottesa a queste proposte: si tratta di pensare il pubblico e il sociale non come enti a cui ci si rivolge per chiedere, ma invece pensare il pubblico e il sociale come qualcosa che è agito dagli stessi cittadini. Del resto, la logica dei “beni comuni” non è quella di unire i cittadini per soddisfare esigenze comuni?

Nella stessa linea si muovono gli ecologisti con le proposte sulle energie rinnovabili, sulla raccolta differenziata dei rifiuti, su un’agricoltura sostenibile, su tanti comportamenti che portano non solo a un’economia diversa, ma anche a una vita diversa.

Si può richiamare e riassumere tanti loro discorsi nell’indicazione delle sei “R”: rivalutare, ristrutturare, redistribuire, ridurre, riutilizzare, riciclare.

Ogni iniziativa autonoma economica, sociale, culturale è preziosa, se non volta al solo profitto, ma a un giusto rendimento da una parte e allo sviluppo del bene collettivo dall’altra.

 

Crescere meno, ma meglio.

Poiché il capitalismo è diventato una cosa sola con la società mondiale appare troppo complesso affrontarlo nel suo insieme e pertanto le critiche che gli vengono rivolte tendono ad affrontare aspetti specifici, i suoi limiti e i suoi difetti, i problemi che crea.

Un solo pensiero fa eccezione a questo stato di cose: la proposta di “decrescita”, sostenuta da Serge Latouche.

Parlare di decrescita è così contrario al “sentiment” generale che la proposta fa fatica a trovare ascolto.

Essa però, oltre a contenere riflessioni specifiche utili, richiama una verità fondamentale, troppo spesso accantonata per paura o irresponsabilità: lo sviluppo non può essere illimitato (con uno sfruttamento senza fine dell’ambiente).

Basterebbe fermarsi un attimo a pensare e subito questa semplice verità ci balzerebbe alla mente; ma, appunto, prenderne atto, significherebbe dover cambiare radicalmente tante idee e tanti comportamenti.

Il problema merita di essere tenuto presente e posto di continuo per mettere un freno alla “hybris” dello sviluppo infinito: tanto gli esseri umani, quanto il mondo sono finiti e dovremmo pertanto agire coerentemente col senso del limite.

Il capitalismo sostiene che a far funzionare l’insieme delle decisioni economiche provvede il mercato, ma il mercato può solo far incontrare la domanda e l’offerta presenti, non certo rispondere ai bisogni reali, né tanto meno indicare le finalità collettive più valide.

Senza rinunciare al mercato (ma tenendo presente i suoi limiti) ciò che sarebbe necessario e possibile – almeno nel medio periodo, come obiettivo realistico da perseguire – sarebbe una “cooperazione” tra Stati che avesse come finalità l’evitare le distorsioni maggiori dell’economia, stabilire regole fondamentali ragionevoli condivise, frenare l’uso delle risorse non rinnovabili, concordare un impegno concreto per lo sviluppo (non l’assistenza) dei paesi più poveri.

In attesa delle riforme delle istituzioni internazionali (o di un improbabile avvento di qualche forma di governo mondiale), una trasformazione del G7 in un modello realmente rappresentativo (senza allargarlo troppo e rendendolo concretamente efficace) potrebbe, almeno transitoriamente, essere una sede valida per un orientamento comune internazionale.

Questa sede di potere politico “cooperativo” deve essere controbilanciata da una vasta azione democratica mondiale di carattere sociale e ambientalista, affinché il potere si muova in un senso più consapevole nel limitare lo sviluppo sfrenato.

La cooperazione mondiale tra Stati, a partire dalle grandi potenze, è l’obiettivo più concreto che possiamo porre per iniziare a invertire la tendenza allo sviluppo illimitato, ispirato dal profitto.

 

Per concludere

Come abbiamo cercato di mettere in luce, la battaglia oggi da condurre è molto ampia e non si riduce certo alle questioni economiche, che pure rimangono fondamentali: sono anche battaglie di potere, culturali, ambientali.

Giustamente Edgar Morin afferma che occorre sostenere una “politica di civiltà” che comprenda le diverse battaglie e che si allarghi a sviluppare la parte positiva, costruttiva.

Anche in questo caso, il cambiamento rispetto al passato si presenta sostanziale.

Una volta si pensava che l’essenziale stesse nel prendere il potere e poi si sarebbe visto che cosa fare: oggi è necessario invece dimostrare nella pratica la sostanza di ciò che riteniamo giusto realizzare. Nella società di oggi si costruisce quella di domani; non solo dunque criticare il vecchio, ma operare subito per il nuovo.

Per un verto verso si ripresenta la logica suggerita da Gramsci, quando parlava di passare da una guerra di movimento a una guerra di posizione; ma nel frattempo le cose si sono molto più complicate, non abbiamo più un soggetto definito quale artefice del cambiamento, la situazione è diventata mondiale ed è più difficile individuare la meta futura.

Non possediamo un modello già definito di società da realizzare; una società più giusta è un compito che non ha mai fine. Gli ideali di questa società possono essere individuati in quelli proposti una volta dalla Rivoluzione Francese: libertà, uguaglianza, fraternità. Libertà per valorizzare le persone, uguaglianza come condizione della democrazia e di una società giusta, fraternità come l‘obiettivo più importante, il rapporto da realizzare tra le persone.

Lo diceva bene Claudio Napoleoni, che per tutta la vita si era dedicato ai problemi del capitalismo “Non si tratta di uscire dal capitalismo per entrare in un’altra cosa, ma si tratta di allargare nella massima misura possibile la differenza tra società e capitalismo, di allargare cioè la zona di non identificazione dell’uomo con la soggettività capovolta”.

 

Sintesi.

È bene, per facilitare la comprensione, riassumere i punti essenziali del discorso.

  • Il problema del capitalismo, anche se oggi è poco dibattuto, rimane un tema centrale. Essendo diventato più complesso, va affrontato in modo diverso dal passato.

  • Non si tratta di abbattere il capitalismo; l’economia è una sola ed è questa. Si tratta dunque di cambiarla.

  • Non è possibile pensare che in una sola volta (la rivoluzione) si possa cambiare tutto. Le battaglie da realizzare sono molteplici. Il problema è individuare il “punto di congiunzione” di tante battaglie giuste, ma diverse.

  • Il metodo di lotta non è la rivoluzione, ma la democrazia. Certamente non una democrazia passiva, ma una democrazia trasformatrice, “insorgente”.

  • Non c’è un solo soggetto agente del cambiamento, ma molti. Anche la classe lavoratrice è uno dei soggetti, però una classe lavoratrice diversa che conta non tanto come massa, ma come un insieme congiunto di soggettività qualificate e preparate.

  • La battaglia non è solo economica e tanto meno redistributiva. Occorre allargare lo spazio delle attività non legate al profitto.

  • Non abbiamo un modello di società da proporre e una società giusta non è mai realizzata una volta per sempre: libertà, uguaglianza, fraternità riassumono bene i valori che ci ispirano.


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